Fosse stato un matrimonio si sarebbe detto: sposa bagnata
sposa fortunata. Senza il benché minimo appiglio ad una qualche logica
stringente. Ma tant’è. Non era un matrimonio, bensì un consesso aziendale, ed
in fondo si stava stipulando un contratto tra persone atte ad adoperarsi per un
fine comune: oltre a quello ultimo di far profitto, creare impresa, azienda. E quel
giorno di dieci anni fa esatti cazzo se pioveva. Io lo presi come un segno di
presagio: sarebbe stato cazzo dura, ma alla fine non può piovere per sempre, e
ne saremmo usciti. D’altro canto, non c’erano spose bagnate, perché non era un
matrimonio, anche se di una [doppia] fascinazione dopaminica era il frutto.
Quell’azienda l’avevano decisa in due. Si erano messi assieme pochi mesi prima.
Due percezioni di sé articolate ed un po’ distorte. Erano in fase dopaminica: è
il periodo in cui la maggior parte delle coppie si sente pronta ad affrontare
la sfida di una maternità, è funzionale alla prosecuzione della specie. Loro
decisero di fondare un’azienda.
Lei mi propose di farne parte. Un po’ per l’amicizia, un po’
perché avevano bisogno di una figura come la mia. Quando me lo chiese ebbi la
percezione di toccare il cielo con un dito. Mi sentii un privilegiato: poter
finalmente lavorare con lei. Oggi rimango perplesso riguardo al me di quegli
anni, e di quanto fosse distorta la mia percezione di lei, e dell’abbaglio
totalmente spiazzante di cui rimasi abbacinato. Al netto della mia poca
autostima, ovvio. Non ero una persona del tutto sprovveduta, ero già la fottuta
testa di cazzo che sono – anzi, forse di più - soprattutto in termini di selezione
– stringentissima- per le persone per cui provare stima. Volevo il meglio. Lei
era tra quelle, pensavo.
Accettai. Senza riserve e senza pormi troppi dubbi. Se me lo
chiedeva lei non poteva che essere una cosa che mi avrebbe dato un sacco di
soddisfazioni. Giusto quei sottilissimi dubbi, istintivi, verso un paio di
personaggi della compagine: ma in fondo chi ero io se non il più giovane ed inesperto?
Dovevo mettere a disposizione la mia tecno creatività, le mie risorse, la mia
capacità di imparare cose nuove “tecniche”. E dovevo confermare quello che lei
disse agli altri: è un ingegnere, ma vi stupirà per la sua vena e la sua
sensibilità artistica. Garantiva per me, non potevo certo deluderla.
Accettai. Pensai che la mia vita professionale stava per
imboccare la svolta definitiva. Per non dire sarei stato finalmente addentro ad
un certo tipo di relazioni “milanesi”. E non potevamo che andare verso
magnifiche sorti e progressive. Grandi soddisfazioni ci aspettavano. Con il
corrispettivo ritorno economico. Quante volte, da lì a pochissimi anni dicevo
cose del tipo: quando l’azienda ingranerà definitivamente farò questo e potrò
permettermi quest’altro.
Accettai. Quel giorno cazzo se pioveva. Alla fine quel
giorno venne fuori un po’ all’improvviso: la combinazioni di eventi, persone in
visita, notai a disposizione per firmare l’atto costitutivo. E firmammo, in un
palazzo del complesso delle costruzioni svizzere. Tra i giardini di porta Venezia
e corso Manzoni. Firmammo dopo un’estenuante spiegazione punto punto al notaio
della ragione sociale e l’ambito di attività. Preciso, il notaio, come uno
svizzero: voglio esser certo di aver capito bene, volete fare cose troppo nuove
per quello che posso intendere - diceva. Mentre fuori pioveva, cazzo se
pioveva. Il presagio sarebbe stata dura. Ma alla fine ce l’avremmo fatta.
Alla fine non ce l’abbiamo fatta per un cazzo. E non perché
quel giorno pioveva, ovvio. E non solo e non soprattutto, perché di lì a poco –
poco dopo quel ventotto maggioduemilasette - avrebbe deflagrato la più grande
crisi economica dalla fine della seconda guerra mondiale. Ce lo raccontavamo e
lo raccontavamo i primi tempi. Quasi a giustificarci. Non ce l’abbiamo fatta. Nonostante
la fatica, la difficoltà, le rinunce, i soldi investiti e soprattutto quelli
non guadagnati in quegli anni. Non so come ci si senta quando finisce un
matrimonio, o una storia importante. Ho ragione di intuire in maniera non
troppo diversa.
Poi si riparte, ovvio. Anche con il lavoro di togliersi di
dosso il senso di fallimento. Forse un bel passo avanti sarà quando lo decreteremo
– tecnicamente - il fallimento.
[continua]