Sunday, December 31, 2017

in effetti quando accompagnai mia madre a salutare per l'ultima volta don dionigi ho avuto la sensazione di aver vinto io [pars contruens]

perché non c'è solo la pars destruens.
e perché la pars construens passa attraverso questi testacoda. o paradossi.
si stava andando ad una camera ardente - nel  bucodiculo della brianza - a salutare un morto, per quando cardinale, ed io in quel momento, mentre si percorreva la litoranea deserta e con un caldo lattiginoso, capii di aver vinto. quella più malinconica era mia madre - era mancato il suo don dionigi, il giorno in cui ripartivo dal mare - però credo abbia intuito che la mia testa stesse facendo click. forse financo prima di me. le stavo raccontando di quella settimana faticosissima ma che già mi risuonava struggente. che non era stata bella, ma fottutamente formativa, maieutica a suo modo: ce la si poteva fare. nonostante l'istruttore sociopatico, l'aggrapparsi isterico alla draglia dell'inizio, l'incazzo di voler mollare tutto e sfanculare il tentativo. anzi. forse proprio per questo. un altro [apparente] paradosso.

ma andrei con un minimo di ordine.
anzi, ma anche no.
perché quella settimana è una specie di epigono: perché prima si è dovuta preparare, arrivarci tipo a spirale. e poi si è andati avanti, che già che c'era l'abbrivio. ci si è arrivati con dei rimbalzi forse casuali, che si sono inseriti in nessi causali. un libro preso per caso in biblioteca - una paraculata editoriale, ma per certi versi utile - l'immagine di copertina, io che ne parlo ad odg perché volevo parlarle della parte utile di quel libro. odg che le viene un'intuizione quando le dico della copertina, e la raccomandazione della vacanza come indicazione terapeutica. io che le dico avrei trovato questi qui. lei che mi dice mi sono informata, ho capito chi sono. tutto mica in una volta. a spirale, appunto.
e via così.
fino a percepire, giù in fondo nel punto fondante, che le cose sono possibili. e che non fa così paura pensare di provare a farle diventare un tocco oltre il possibile. anche se può essere faticosissimo, anche se ti può venire di aggrapparsi alla draglia, anche se l'istruttore è sociopatico. anche se giuri e spergiuri di non salir più su una cazzo di barca a vela. perché poi ti capita anche un po' il culo di incrociare qualcuno che stia lì - perfetti sconosciuti - ad ascoltare il tuo esternare a fiato corto ed il groppo in gola del piccolo shock della giornata - anche il fatto che siano le prime vere vacanze dopo anni, e che sembra ti stia scoppiando tutta la merda in mano, i blocchi, le incertezze, i pochi appagamenti, le scelte sminchiate, gli uomini piccoli a cui devi rispondere, una realizzazione che non c'è e non si vede. e che poi ti mescino del mirto, per affogar un po' tutto nella cazzaraggine [auto]ironica. e che poi ti trascinino, il giorno dopo, sul pontile, magari solo con la scusa che hai un bel pezzo di cambusa nello zaino, mettiti un po' la mano sul cuore e muovi il culo. poi vabbhé, alla fine il saltino per tornar sulla barca l'ho ben dovuto far io, con lo stomaco un po' in subbuglio, col caldo aggressivo che fintanto che non sei fuori dal porto ti stride addosso. ma è importante tutta la filiera. chi ti porta al pontile e te, col tuo saltino. ed una volta a bordo poi si issa il fiocco.
e via così.

tipo, appunto, che il cambiamento è possibile. è nelle corde. è in potenza. che l'immobilità non è obbligatoria. anche perché basta non tirare in direzioni diverse assieme. 'ste cose qui insomma, in apparenza banali, che chi ci è già arrivato meglio per lui. ora dovrei averlo [ri]capito anch'io.

sarebbe poi questa la pars construens. essere andato oltre la pars destruens. in maniera fuzzy, non è che una mattina ci si sveglia e dici: buondì pars construens. è un declivio raccordato. con pochi strappi o robe eclatanti. quasi senza accorgersene, però un bel giorno 'sto plumbeo sembra sparito.
e nel trascorrere un sacco di cose belle.
tipo i libri, che son tanti, perché sono compulsivo a leggerli e poi perché sto imparando. quindi ci son stati - tra gli altri - kazuo, david, alessandro, etty, emma, roberto, philip, fabio, ralf, roddy, ian, jonathan, alan, antonio, andrej.
tipo, soprattutto, le persone [in ordine sparso] l'abilitazione dell'amica viburna, i calici alzati con la cummmmà liude e l'amico luca, le compulsioni dell'amica paola, le chiacchierate e gli entusiasmi dell'amico guiTo, l'ascolto attento dell'amico emanuele, le risolutezze dell'amica chiara, l'amica laura ritrovata, le peripatizzazioni coll'amica valentina. e poi quelle conosciute - dal vivo o meno - nuove nuove, alcune veramente codine della gaussiana, davvero tanta roba [rigoroso ordine alfabetico: amalia, alessandra, antonella, danilo, francesca, giusy, irene, marco, rebecca, stefano, valentina, zino]
e poi le chiacchiere in piedi - e pace se siano già finite, le foglie raccolte colla musica nelle orecchie, i quadri raccontati, le idee da pelle d'oca, la triennale, i post di gianluca, itsoh, barbara, il ventimaggiosenzamuri, il venticinqueaprile, sundayblues dal vivo alla radio, le ong che salvano le persone nel mare - e a gran stronzissimo culo tutti i salvinismi che albergano in troppi -, la prima diffusa alla fondazione feltrinelli, il piacere di un calice davanti un film, bookcity, il ringraziamento di alcuni colleghi, le piccole epifanie da odg, la paizza condivisa, i bimbi nuovi che sono arrivati - alcuni in anticipo, con 'sta gran fretta di guardare il delirio che li attende - e quelli che stanno arrivando.
la sensazione di stare bene.
e poi 'sta cosa del piacere di scrivere, che a volte viene financo discretamente. piacere ritrovato. o [ri]scoperto. con questo odore fresco del tocco oltre il possibile. qualsiasi cosa voglia dire. oltre che potrebbe essere un riuscitissimo uovo di colombo. ci son voluti alcuni barnum, chi l'avrebbe mai detto: è un altro paradosso, baricchiano. intanto "la sposa giovane" me lo sono centellinato come un piccolo piacere, a chiusa dolce.

e mo vediamo dove porta il vento.

Saturday, December 30, 2017

in effetti quando preparando i maffffinz mi ricordai di aver dimenticato il lievito non fu una bella sensazione [pars destruens]

e quindi direi che ci sto ricascando. hai voglia dire che le scadenze - di una bolletta, di una garanzia, di un anno - sono come i confini, convenzioni. però poi prudono le ditina. e ti viene da tirar la linea, guardar indietro, e ammonticchiare un po' tutto. chiamarlo bilancio forse è un po' sboffonchiante. ma è qualcosa che gli si ispira, via.

poi, vabbhé, ci sarebbe anche l'annosa questione del separare dicotomicamente l'elencazione delle faccenduole mie. sono svariati gazzilioni di secoli che ci si arrabatta a raccontar variazioni sul tema fondante, la quisquilia tra bene e male: epiche, filosofie, culture, tradizioni, saghe di guerre stellari. poi alla fine scopri che siamo tutti un tutt'uno, quindi dicotomia de li me cojoni.

non pretendono così tanto, l'elencazione delle faccenduole mie, dico. quindi facciamo che planiamo sulle cose che sono andate meno bene - destruens - e quelle andate più bene - construens. l'ordine, savàsandiiiir, non è casuale.

quindi la pars destruens.

girano gli anni, ma uno rimane fedele alle proprie ontologiche sicurezze di ciuccare in quei tre-quattro fondamentali. e quindi non è una questione di capodanni che passano, ma proprio una [lunga] strada per ciuccare un po' di meno. o per tratti meno lunghi e faticosi da trattare per cercare di uscire dalle buchette, grandi o piccine che siano.

poi, ovvio, c'è sempre il confronto inevitabile con il principio di realtà e cosa la realtà - oggettiva - ti butta lì sul camminare. roba che non si controlla, c'è e tocca zizzagarle, oppure saltar da un sassone all'altro macigno: leggero o greve che sia e continuar a farsela 'sta strada.

destruens, a dirla in breve, è stato un blocco per diversi mesi, i primi tot.

a dirla meno breve destruens è stato quel sottile bordone di fondo, che mi son tirato dall'anno indietro [son convenzioni, come i confini, i capodanni]: una splendida e inevitabile sequela senza soluzione di continuità. un raccordo tra i due anni, nell'estate, poi l'autunno, poi l'inverno, e poi un gran pezzo di primavera. niente punti angolosi, quelli li eviterei, grazie. un sottile bordone di fondo, un misto disarmonico di insoddisfazione esistenzial-lavorativa, desideri rintucciati di una compagna - o forse di un'amante - e poca propensione all'azione, affogata nella speculazione interiore. [ho trovato sul feisbuch un finale di micro-post di fine gennaio: "poi ci sono io, che il 10% delle cose che analizzo sono il 90% delle cose che sintetizzo. poi ovvio che uno si perda un po' via..."]. un bel mics piuttosto invalidante, nel senso che uno ristà. e magari non è perché sta affffà 'na beata sega. no: è che si tira da più parti in contemporanea, e non ci si [s]muove. tipo rimanere in attesa di cose che si desiderebbero, ma senza troppa convinzione, o senza far sapere in maniera chiara cosa o chi.
anche per questo ho passato un compleanno discretamente di merda. o forse me lo sono imposto per una qualche propensione ad un autodafè dei poveri. ho spento il telefono e la voglia di comunicare col mondo. poi, però, ho dovuto riaccenderlo quel fottuto telefono. e forse è stato peggio: bisognerebbe pensarle le conseguenze, ogni tanto. il nesso causale non è cosa poi così complicata da immaginare.

non sono state albe facili. roba che da una volta chiesi ad odg di vederci anche la settimana successiva. faticavo al pensiero di dover attendere quindici giorni. pensiero che ha anticipato di un nulla la sua idea di propormi la stessa cosa. ero seduto lì, in fronte a lei, le spalle un po' chine. un rinculo di singhiozzo lagrimoso. guardavo avanti, vedevo una cosa plumbea. 

destruens è stato quel richiamarmi, ossessivo, la difficoltà di affrontare in quei giorni, settimane, mesi, le frustrazioni, i momenti spigolosi, gli scazzi. ammonticchiavo e non riuscivo a scaricare, e il fluire delle cose sparpagliava rena. faticoso andar avanti. anche quando mi è capitato di camminare - sul serio - lungo la circonvallazione della 90/91, per svariegate fermate: non arrivavano filobus. impotenza, tentativo di porvi rimedio, incazzo. camminavo ma i passi non lasciavano sulle suole la tensione, la caricavano.
una mattina successiva pensai di preparare i maffffinz per la colazione: facciamo una cosa construens, per scacciar via il destruens sottile e duro, come i crostoni di neve ghiacciata che non si sciolgono col sole che c'è. non so se pensai proprio ai crostoni di neve, anche perché era appena finito aprile. ma il senso era quello.
quindi spignattai, tutto perfetto e rassicurante, fino allo riempimento delle formine maffffffinistiche. quando realizzai - piccola epifania - di non aver messo il lievito, mentre l'impasto color cioccolato scendeva nei pirottini. fu una scarica violenta, uno spike disgustato. con l'idea fosse da illusi pensare di scampare a quel plumbeo che sembrava non volermi abbandonare: impotente di fronte a quell'ineluttabile. e quindi venne la reazione isterica, oltre che di impasto burroso che volava - e sporcava - qua e là nella cucina, quasi a voler rappresentare schizzi di merda sciolta ejettata, dalla mia rabbia carica di lagrime nervose, e voglia di punirmi fisicamente: solitamente sono le mani, o le nocche che si arrestano veloci sul muro, ad aver la peggio. mi vidi addirittura con la voglia di sfondare il vetro della porta della cucina, analizzando - savàsandiiiir - le probabilità potessi finire in un qualche pronto soccorso a farmi dare dei punti. non fu una bella sensazione.
però non ruppi nulla. riuscii a placarmi scrivendo, per alcune ore successive, un flusso di coscienza. niente scrittura creativa, un enorme giro per arrivar a raccontare del lievito dimenticato. [flusso di coscienza, peraltro, di cui non ho più nemmeno una copia. questo post, per fortuna, è più breve].

ecco. una medesima sensazione d'impotenza, come dovessi venirci risucchiato, mi colse, poche settimane dopo. in giornate in cui pensavo di esserne venuto un po' fuori, o che riuscissi a cominciare a farlo. soffiato dal vento e da questo cotto, in mezzo ad un braccio di mare, di cui intuivo la potenza immensa e annichilente - ovvio poi che i marinari siano così superstiziosi - aggrappato alla draglia di una barca a vela che a tratti mi sembrava troppo inclinata: paura no, ma forte disagio. impotente dentro una situazione che speravo potesse arrivar a significare altro, dopo grumo importante di mesi, molti mesi, anni. mi sembrava si stesse reiterando tutto. un ritornare al punto di partenza relativa, dopo averci provato. il bordone di fondo, come inevitabile: tranquillo brò - sembrava mi dicesse - ci son qua io a farti compagnia, non ti lascio. e quindi, a tratti stringendo un po' di più la draglia, pensavo che quella sera sarei sceso dalla barca per non rimetterci mai più piede, me ne sarei tornato lontano dal mare e per dispetto sarei salito in montagna, a finire quelle prime vacanze dopo tutto quel tempo. che fosse pure destruens, ma che andassero a cagare tutto e tutti.

il giorno dopo mi hanno riportato al pontile. e poi, su quella fottuta barca, ci sono risalito. questa però è la pars construens.

Monday, December 25, 2017

ora e sempre resilienza [post che non so se casualmente vien fuori la notte di natale]

c'è 'sta parola che mi piace assai. resilienza intendo. pare ormai sia diventata financo di moda, quasi da fighetti utilizzarla. nel caso non me ne curo. anche perché - ci sto pensando da un po' - credo possa rappresentarmi un modo di porsi, di essere, di rapportarsi con le cose del mondo. e magari aiutarti a tirar fuori quella specie di solco lungo il viso [cit].

vado a spiegarmi, con alcuni esempi che in apparenza possono sembrare così tanto sparpagliati, e scorrelati.

amazon, come esempio facile e gancio per quello che è lo sfruttamento della gig economy. amazon in principio vendeva libri, ed ha inventato le tab delle pagine del gueb. quelle che hanno dato un nuovo ordine alla navigazione interna agli ipertesti. tanta roba. poi amazon si è rivelato essere il fagocitatore del commercio online in una certa parte di mondo [ricco]. bezos ricco che occorrerebbero generazioni per spendersi il patrimonio. possiamo anche fottercene della ricchezza del suo proprietario, non siamo obbligati a pensare necessario l'esproprio proletario. però. c'è un punto cogente nell'esigenza di fare un click sul carrello del sito ed avere, poche ore o il giorno dopo, quello che si è acquistato. ed è la catena della logistica della consegna. dal punto di vista ingegneristico è roba da ingioiellamento. però tutto tirato allo spasimo, ovvio. sennò il prime non lo puoi garantire. significa tirare il limite, troppo, ad un sacco di gente che ci lavora. poi, chiaro, nelle miniere di carbone in cina, i bambini in quelle di diamanti in sierra leone o di cobalto in congo, è roba nemmeno paragonabile. però, qui, si tira al limite gente per avere il pacchetto dal click alla consegna in sempre meno tempo.
ecco. io, se posso, evito di comprare su amazon. è chiaro che amazon possa anche fottersene. così come non è che il resto della vendita on-line sia luogo virtuoso perché altro da amazon. però la resilienza è anche incuriosirsi di quel che succede nella pancia delle magnifiche sorti del pacco con su il sorriso. coltivando il sano dubbio su questa specie di divinazione di poter comprare comodi, e veloci aver il pacco [inteso in maniera polisemica, ovvio]. e confrontarsi raccontando le proprie perplessità, specie a chi ne fa quasi un entità rasserenante: il gran sacerdote dell'acquisto inevitabile. buttando lì l'idea semplice che, rivoluzione per rivoluzione, e considerando i margini imbarazzanti nel complesso, si potrebbero pagare di più chi ci lavora, o magari farli lavorare di meno a parità di stipendio. amazon è amazon. io sono io. e l'ordalia commerciale on-line esiste. inutile opporsi. ma osservandola con un po' di critica costruttiva, condividendola. ed usandola in maniera altrettanto consapevole.

i migranti. argomento che torna ogni tanto nei post. perché è istanza che mi pungola. gli uomini migrano, da sempre. ad un certo punto della storia però hanno cominciato a farlo quando si è reso necessario andare in cerca di qualcosa di migliore. sennò si rimane stanziali. anche perché è struggente recidere l'eco dei luoghi di dove si nasce e si cresce. noi si sta in un parte di mondo ricco. qualcuno vuol venire a partecipare un po' a quella ricchezza. anche perché da dove viene si può partecipare solo a violenza, carestia, guerra. tutte cose che naturalmente ci vengon da rifuggere. il fenomeno migratorio esiste e, per quanto complesso, non si può resistervi. è cosa stupida, che quindi non porta a risultati intelligenti. resilienza è smettere di pensarla come un'emergenza a cui bisogna porre rimedio. resilienza è cominciare a pensare come cominciare a smontare la complessità del fenomeno per poterlo imparare a gestire. resilienza è pensare di far scoppiare le incongruenze, egoiste e miopi, di chi ci specula per motivi gretti. resilienza è provar ad informarsi e aiutare ad informare: se ne sa di più, è più facile intuire un po' più di empatia. e se si empatizza diventa più complicato atteggiarsi a stronzi. e se ci si atteggia meno da stronzi le argomentazioni grette appaiono per quel che sono: grette, opera di master of stronzi. un cazzo di difficile far resilienza. ma necessario.

l'incedere del mio divenire. ora provo a spiegar meglio. sono una persona fortunata. sono nato nella parte ricca del mondo ed in un periodo di relativa serenità. sono in salute e  - tutto sommato - sono in salute le persone vicine. ho studiato, avendo la possibilità di ricervere un'istruzione importante, e gli strumenti necessari per andare oltre. però la vita è complessa, alcune cose capitano [tipo la salute di una persona cara] e possono essere esiziali. oppure si possono fare scelte, per quanto in buona fede, che si rivelano essere un po' [tanto] sbagliate. e quindi le cose si intorcigliano. e [ci] si incasina il divenire. fino a scordarsi - tanto o poco - di essere una persona fortunata. anche perché può capitare che faccia buio in fretta, quando non ce lo si aspetta. resilienza è continuare a picchiettare con il martelletto da geologo per trovare dove il suono ciocca di vuoto, il punto più debole. e da lì cominciare a smonticchiar il diaframma e far smettere il buio. resilienza è prendersi qualsiasi stilla di cose facciano bene e farla fruttare appieno. resilienza è cercarla nelle cose meno artefatte e godersene agggggratissssse [come, per esempio, scrivere un post]. anche perché non son altro che le eco più fantasiose delle capacità adattativo-resilienti ci si porta dentro. tipo l'acqua per i cactus, che gliene basta poca. l'acqua serve, ovvio. ma è il signor cactus che poi fa il gran lavoro di farne ciccia per sopravvivere.

insomma resilienza è perché le cose difficili e dolorose accadono, senza siano le ultime. resilienza è quella cosa con cui si può cavalcare i pieni e vuoti di quel che ci succede più o meno accanto. intuendo che è tutto un grandissimo, incasinatissimo, psichedelico - ma per certi versi ed a tratti divertentissimo - groviglio di pieni e vuoti altrui. che son venuti prima e che verranno dopo. e che le istanze mie, di adesso, son state quelle di altri in tempi andati e quelle dei tempi andati miei sono istanze di altri, adesso. è un po' questa complessità qui. in cui però, con resilienza, si intuisce più facile il fatto dell'idea, opinione, consapevolezza, [vuoti e pieni, bui improvvisi e risalite alla luce] altrui. fa un cazzo di fatica, neh?, però dà anche una più che discreta soddisfazione.

con la resilienza si scopre c'è spazio davvero [quasi] per tutti, in modo inclusivo, anche se non sono d'accordo. rimane fuori l'ignoranza volontaria, la violenza, il razzismo, le varie sfumature di fascismo [tutte].
per quelle, come al solito c'è solo una cosa: ora e sempre resistenza.

Thursday, December 14, 2017

sui libbbbbberi e uguali [libbbbbberi e uguali] [libbbbbberi e uguali]

siccome sono sul pezzo mi sovvengono alcune considerazioni sulla notizia che ha deflagrato, in un certo contesto, una diecina di giorni fa.

la nascita di liberi e uguali, dico.

ovvio che la cosa non mi lasci indifferente [anche se ci scrivo sopra quando la notizia è ormai rafferma, tipo il pane dell'esselunga dopo un giorno, ma è un problema mio], perché è la cosa tecnicamente votabile che sta alla sinistra del pidddddddddì, che si è talmente spostato che poi è come dire ci son le praterie. poi, sia chiaro, che arrivi a votarli vedremo. l'alternativa, in questo momento, è non andarci proprio a votare. ma vedremo, appunto, c'è tempo. volendo adattare un concetto che millemila anni fa mi piacque, in altri contesti [i corsi di comunicazioni elettriche e trasmissione numerica], diciamo che è un possibile voto per verosimiglianza.

il nome mi piace, cazzo, almeno quello l'hanno azzeccato. sarà che l'articolo 3 è quello tra i più emozionanti, per me che non ne capisco granché. perché 'sta storia che la Repubblica debba "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini" mi pare la più imprtante e giusta azione perequativa si possa mettere in atto. di più: è quello che a mio ignorantissimo modo di vedere è la tensione alla giustizia sociale, la più alta di tutte. tensione, nel senso dinamico. che vi si deve volgere. si sta in moto per. dà senso, orizzonte, direzione.

vabbhé. divago.

peraltro ho leggiucchiato di alcuni che ragionavano sullo iato tra uguali e liberi vs liberi e uguali. i soliti marxisti. al netto che preferire una o l'altra dà un'idea della formazione di fondo. io ovvio preferisco liberi e uguali. perché ugualianza prima della libertà è che qualcuno/qualcosa decida che io debba essere uguale, quindi libero. e invece, fintanto che non saremo liberi di vivere le nostre unicità, non avremo la possibilità di scegliere di saperci uguali nei diritti di ciascuno e delle possibilità devono essere dati a ciascuno.

non sono del tutto entusiasta della necessità di trovare un front man da mettere nel nome del logo. ma è [mia] questione antica. e sono io quello fuori dalla norma - forse quello sbagliato. sarà che forse è uno degli elementi più pervasivi del lascito caimanesco/berluscazziker: quello ci debba essere un leader il cui nome va sulla scheda. anni fa discussi con l'amico itsoh su questo dettaglio. peraltro si interloquiva del fatto di avere una figura omologa per sel con il nichi nazionale. non mi convinceva si dovesse concentrare su di una figura il portato di un parco di idee. lui - itsoh dico - non ci vedeva nulla di così reprovevole. forse è anche per questo che non ha l'itterizia per il suo segretario, che porta a livelli iperuranici quel concetto [e anche per questo me lo fa amare come l'itterizia].

peraltro anche l'investitura, per acclamazione, di un personaggio chiamato a coprire mediaticamente un tassello non mi ha fatto venire la pelle d'oca dall'emozione, a voler cercare un eufemismo. è quasi sembrato che il presidente del senato abbia cominciato ad esprimere una certa visione delle cose ed hooop, toh, che caso: c'è libbbbbbbbberi e uguali da presiedere.

peraltro, il lider, è stato certamente un encomiabile magistrato, è persona degnissima. ha fatto stracazzo bene il suo lavoro. ma è così certo possa far altrettanto bene il lider? nel senso più ampio e alto del termine. nel senso che può essere benissimo così. ma anche no. e soprattutto: ci si deve fidare. però io ormai ho smesso di fidarmi. vorrei capirci meglio di mio. anche perché le sòle le colgo abbastana in fretta. non che debba esserlo lui, ci mancherebbe, anzi. magari dà della biada a tutti. ma al limite lo scropriremo solo vivendo. e 'sta cosa non è che mi lasci del tutto tranquillo.

ho una sottile, vaga, incuneante sensazione che l'epos fondativo sia un po' traballante. e quindi chissà cosa potrebbe venir giù. o quando, o come. lo scopriremo solo andando avanti. poi magari nella mediocrità sovrastrutturata [e iper-egotica] degli altri farà anche un figurone. per ora non resta che [mediaticamente] sperare. anche se il sergente lo russo/abantuono diceva in mediterraneo che chi vive sperando muore cagando.

il logo mi piace. per quanto le foglioline ricordino un po' emergency [quindi una bella associazione ed impatto emotivo]. però emergency è un'altra cosa. ed in fondo è bene rimanga un'altra cosa. l'amaranto è una bella paraculata per non scartare in cose troppo rosse.  

poi, ça va sans dire, il presidente del senato dovrebbe dimettersi, perché lider di un partito. semplice. ma forse per loro è già cosa complicata. oppure lo sanno, e se ne fottono.

[ma la domanda è: e forse li voterei anche? ecco, dà l'idea di come percepisca il resto e di come lo consideri. cose così [udpt nel rileggere il post, considerato l'abbia terminato mentre me si chiudevano gli occhi dal sonno e sapendo che così sarebbe stato infarcito di refusi. non ricordo del perché abbia messo questo inciso, né cosa in fondo significhi]].
[d'alema non comanderà, come ha ironizzato sarcastico il suo successore, in termini di egotismo politico: renzi dico. d'alema, al limite, deciderà quando spaccare e far venir giù tutto e ci proverà. come peraltro ha fatto nelle circosante in cui a decidere per davvero non era lui. baffetto, in fondo, è fatto così].

Friday, December 1, 2017

piccolo intermezzo lamentoso

oggi ho rosicato. è un'esperienza tutto sommato nuova. cerco sempre di lasciarla lontana questa sensazione di inutile ombelischismo. non tanto per l'ombelichismo in sé, ma perché poi vai a guardare quello dell'altro.

ho rosicato. perché una persona ha vinto una sua personalissima sfida. e se questa persona ti sta pure sui coglioni, la cosa non aiuta. e ho la sensazione faccia molto volpe e uva la mia razionalizzazione che io una sfida non l'avessi in essere. o che non fossi in una sorta di competizione, seppur mai dichiarata, seppur mai accettata - più o meno in modo vestigiale. di più: che non avevo mai ammesso esistere, con la scusa del mio spirito competitivo ormai perso chi sa dove. e invece, forse, è proprio la storia del perdere. più facile rinunciare alla sfida, così non si perde. e si fa pure la figura rassicurante degli atarassici.

il fatto è che perdere bene è fottutamente una cosa da grandi. anche perché significa essere capaci di rinunciare a vincere. io non so se ne sono capace. non mi metto nemmeno alla prova.

forse è 'sta roba qui. la solita paura di mettersi alla prova.

non per altro stavo prendendola come scusa, questo rosicamento, questa vittoria altrui, per rinunciare a prescindere ad un altra di piccola sfida nel mettersi alla prova. in tutt'altro ambito, ma sempre mettersi in gioco era. confrontarsi, gareggiare. di più- con perfetto ribaltamento ho pensato si stesse muovendo tutto meccanicamente in maniera un po' perfida, per infilare quella combinazione di situazioni acciocché io possa lamentarmi. perché le cose inanellano casualità che frustrano i tentativi di andare oltre questo contesto, quasi che non possa pretenere di desiderare [ben] altro.

non è stata un bella giornata. a tratti mi son visto ontologicamente un piazzato, se non perdente. o quello giusto che è nel posto sbagliato al momento giusto, o nel posto giusto al momento sbagliato. o quello che ha preso la strada sbagliata, e chi se ne fotte dell'entusiasmo che ci si è messi pensando fosse quella giusta.

insomma. tutte 'ste cose qui. pensando solo a tratti la cosa più ovvia: che in fondo non so bene neanch'io cosa desideri. e lo sto cercando un po' di qui, e un po' di là, ed un po' sotto, ma anche sopra. da tutte le parti mica si può andare. così è la fatica e una lentissima riuscita a venirsene fuori dalla stasi delle cose. nonostante viaggi leggero [forse].

non è stata una bella giornata. per quanto non posso dimenticarmi, davanti ad una pagina di blogggghe sbrodolata di parole, di quanto sia stata questa la cifra stilistica di un sacco di giornate contigue, in tempi indietro.

il problema non sono le giornate che non sono belle. quelle capitano al di fuori di noi: in tutti i sensi. il problema, al limite, è quando ci si ritrova soverchiati.
quindi ci penseremo da domani, a vedere se sarà così.

financo sereni ed ironici, se ci si riesce, di essere ad un punto dai campioni.
[e si vinca solo in sogni stroardinari].

anche se oggi ho rosicato.

Monday, November 27, 2017

cucccccuruccccccuuu, paloma, e gli auguri che non dimenticai

roba di quale miGlione di anni fa. potrei dire un cazzo di quarto di secolo [cazzo. cazzo. cazzo. si invecchia], come oggi.

invitai l'amica simona al politecnico. non era la prima volta, in quelle settimane. non al politecnico, dico, quella era la prima volta al politecnico: intendo gli inviti all'amica simona. quella sera come oggi c'era battiato che parlava nella S02, vai a ricordarti chi avesse organizzato l'incontro e con quale tema. battiato, al politecnico, figurarsi.
[quando mi è tornato in mente 'st'episodio mi è sovvenuto fosse un venerdì. però poi ho pensato che fosse strano che di venerdì sera io me stessi ancora a milano. quelli erano gli anni in cui uichend significava tornare all'hometown, convintamente. più che per babbo e mamma era per rituffarsi nel contesto uterino oratoriano. con tutte le sue dinamiche un po' perverse ed asfissianti, a cominciare e finire dal prete oratoriano. che ancora non ho capito quanto pervasivo è stato il suo influsso, acciocché io sia poi finito per sminchiare un buon numero di fondamentali negli anni a venire, soprattutto in ambito sentimentale-affettivo. ma tant'è. è andata così. e non so quanto quell'esperienza mi abbia strutturato in un modo per cui tendo ad essere [moderatamente, ovvio] praud e quanto invece sia stata un'esperienza castrante. ma tant'è, di nuovo, è andata così.
comunque poi ho fatto i calcoli a mente, e continuava a tornarmi dovesse essere un venerdì. poi ho controllato sull'internette: ed in effetti era venerdì. quindi, per quanto fosse strano, era un venedì sera ed io ero a milano. qualcosa doveva avermi trattenuto colà. forse era battiato al poli, forse era per invitarci l'amica simona].
infatti.
dicevo.
l'amica simona.
non era la prima volta l'invitavo. avevo iniziato col planetario. cercavo cose un po' sui generis. io mi sentivo un poco imbarazzato. un po' perché son sempre stato piuttosto impacciato, allora ancora peggio. un po' perché avevo la sensazione che l'amica simona fosse financo contenta di essere invitata. e fosse molto più sul pezzo, centrata nel momento in cui si magnificava l'evento per cui era stata invitata. sì, insomma, avevo impressione sapesse cosa volesse. poi forse aspettava un mio cenno. una qualche mia scintilla proattiva, che andasse oltre alcuni miei imbarazzanti approcci, cervellotici e intimiditi, con uscite un po' grottesche ed un po' esilaranti. spesso ci ospitavamo vicendevolmente [allora stavo in una casa fichissima, in un luogo fichissimo. non avevo del tutto contezza non mi ci sarei più potuto avvicinare ad una magione simile]. poi la ri-accompagnavo a casa sua, e salivo da lei a prendere una tisana. le sue coinquiline in breve tempo si eclissavano. e si rimaneva da soli in cucina. dove ovviamente continuavo solo a parlare. una volta mi disse che lei in casa a volte non utilizzava il reggiseno. credo di aver lasciato cadere l'argomento. già. anche perché non so quanto - quand'anche mi fossi deciso, ed avessi capito che non avevo intuito male - avremmo potuto prendere quello che verosimilmente desideravamo. un po' per le castrazioni. un po' perché ci avevano detto che bisognava andarci lenti, e cogliere i doni dell'altro solo a tempo debito. [beh, sì, in effetti sono castrazioni queste, già detto.]
io non mi decisi perché forse mi cacavo in mano. forse perché non provavo quell'innamoramento sbandevole e sturmunddranghistico che mi immaginavo dovesse essere. almeno a seguire certi paradigmi con cui mi ero imbellettato il cervello in quegli anni. e che per altre provavo, con struggimenti inenarrabili, per il semplice fatto non mi cacassero. ero così, banale, nella mia cervellotica illogica complicazione: se non ci si struggeva perché rifiutati, significava non c'era amore.

poi ovvio che uno ad un certo punto ha bisogno di odg.

comunque. quella sera, mi piace ricordare, l'amica simona indossava un belissimo cappotto verdone. la slanciava, le stava bene, era molto donna in quel cappotto verde.
l'aula S02, invece, era un po' anonima. e battiato si mise nel centro della cattedra. e cominciò a raccontare. non ricordo granché.
tranne che ad un certo punto raccontò di come fosse stato chiamato a far da padrino ad una cresima. ed il vescovo avesse voluto parlargli, prima della lieta cerimonia sacramentale. per spiegargli e sincerarsi - raccontava battiato - avesse compreso il senso di quella celebrazione, il senso dell'essere padrino, il senso di star accanto al cresimando nel momento in cui sarebbe sceso lo ssp [spirito santo paraclito], invocato con apposita preghiera, specifica e prevista nel punto cogente della liturgia, e presente nel rito di solo quella liturgia.
e fin lì, tutto mi tornava.
quello che non mi tornò fu il commento di battiato tra lo scettico e l'irriverente: ma come, davvero devo credere a 'sta storia dello spirito che discende e fa tutte quelle cose? davvero è necessario perché io debba fare il padrino? siete proprio convinti di 'ste cose qui? o mi prendete per il culo?
un po' mi turbò la cosa: ma come? quello del e ti vengo a cercare, quello dell'emanciparsi dall'incubo delle passioni [poche e contrintissime pippe, molto imbarazzanti da confessare, peraltro], quello del cercare l'uno al di sopra del bene e del male che fa come l'eremita per tornare a te, quello dell'oceano di silenzio che scorre lento, senza centro né principio.
cioè, proprio lui, con quell'irriverenza iconoclasta?
com'era possibile arrivare a cantare quel genere di profondità, di ispirazioni, di intuizioni, di bellezza senza credere nel dio in cui, tecnicamente, credevo io? e tutti gli ammennicoli rituali che ne conseguivano: ssp compreso durante una cresima.
non ricordo come risolsi la distonia. distonia peraltro un po' solipsistica, come se il centro di tutto quello che sapeva - vagamente - di trascendente - di più - di non immanente, dovesse avere il copirait della chiesa cattolica. quasi mi faccio tenerezza, a pensarci adesso.
non penso ricorsi ad occam, che ancora non conoscevo: la soluzione più semplice, è quella verosimilmente più giusta [per quanto avessi la struttura neuronale pronta a superare, financo con nemmeno troppo sbadtimento, l'esame di analisi tre, da lì a poco.].
non mi pare ne parlai con l'amica simona, nel suo fascinantissimo cappotto verde.
non ricordo se e come la unii al pensiero che dovevo tornare a casa e telefonare a mio padre, che quel giorno, come oggi, compiva gli anni.
telefonai. mi rispose mia madre, quasi tirando un sospiro di sollievo: ti avevo cercato per ricordarti di telefonare per far gli auguri a tuo padre, sai che ci tiene.
e ricordo anche lì una certa distonia: ma come? come avrei potuto dimenticarmi e non chiamarlo? nonostante fossimo timidamente un po' estranei l'uno con l'altro. nonostante non ci fosse questo rapporto così profondo: ero notoriamente un complicatone che lui non capiva, ed io per sottrarmici ero un buon attore di me medesimo, e recitavo complicazioni che non so quanto avrei voluto in effetti avere. mi sembrò stranissimo. e mi dispiacque che avesse potuto pensarlo. ed un po' forse mi sentii anche stronzetto a mia insaputa ed ex-ante. per tutte le possibilità che in fondo avevo negato e avrei negato da lì per altri tredici anni.
e niente. ce ne si rende conto spesso solo dopo.
complice che uno cresce.
e gli artefatti li lascia lungo la strada. orpelli inutili.
e quindi niente.
auguri.

[e comunque l'amica simona, dopo un quarto di secolo, continua ad essere un donna fascinosissssssima, oltre che brillante come lo era allora. è madre ironicamente felice. superò l'esame di logica con trenta e lode. ma ora fa un bel lavoro, credo, in cui mette buon uso i suoi talenti, soprattutto in termini di intelligenza emotiva e sociale.
naturalmente si è meritata tutto, colle sue manine.
ad ascoltarla parlare, ancora oggi, non si può non notare la sua erre tra il moscio e l'arrotato. per questo non ama cantare il primo verso di 'samarcanda'. anche perché credo continui a venirle da ridere.]

Saturday, November 25, 2017

di foglie, di serie di sogni, e salire più su

oggi ho raccolto foglie.
per uno po' era una cosa da leo buscaglia, le distese di foglie a terra, da immergervisi.
poi, giusto quella dozzina di anni fa, le foglie le spazzavo solo. ma non le raccoglievo. era un qualcosa di circolare. come il continuo ritorno a un momento, in mezzo a momenti che non passavano, che tornavano uguali. in attesa di un momento, senza sapere quando sarebbe arrivato, ma sapevi che era lì, che ci attendeva. e spazzavo foglie.

oggi, invece, foglie le ho raccolte. una piccola fatica, mentre il cielo si apriva e le nuvole giocavano a rimpiattino coi colori del tramonto, che da qui si dispiegano solo dall'altra parte del lago [poi uno dice che se ne sta più volentieri giù nella città, in queste stagioni].

raccoglievo foglie. carico dopo carico, a portarle nell'angolo più lontano del giardino, vedevo ricomparire il prato. una cosa con una sua metrica e una sua velocità - lenta. son soddisfazioni anche quelle. e piccole cose belle. specie in un uichend, fottuto, che in potenza avrebbe dovuto essere uno di quelli più tosti. quelli che dovrebbero portarti ad essere contento è passato.

raccoglievo foglie. e ascoltavo le musichette nelle mie cuffiette, mentre ammucchiavo foglie, le raccoglievo e le portavo nell'angolo più lontano del giardino, ed il prato ricompariva.

ad un certo punto, nella sequela dei brani nelle cuffiette, ha cominciato a suonare una serie di sogni. l'avevo regalata qualche montagna di mesi fa. assieme alle altre canzoni dell'album in cui il deGre canta dylan. e che non avevo ancora ascoltato, che non conoscevo [d'altro canto la mia ignoranza è sconfinata].

e non so. sarà stato il cavalcare dell'incedere ritmico. le sonorità calde delle chitarre. quei tre accordi che subito ti avvolgono. e il primo verso: pensavo ad una serie di sogni, dove niente diventava realtà. mentre ammonticchiavo foglie provavo ad intuire come potesse evolvere il tema armonico, e me lo cantavo, mentre ascoltavo. tutto resta dov'è stato ferito, fino al punto di non muoversi più.

e se il degre-dylan mi fanno un crosssssse di tal fatta, poi ovvio che mi parta il pensiero alle serie dei miei di sogni. e che ultimamente mi stanno raccontando cose cariche di attenzioni. [nel loro laocoontico attorcigliarsi. che l'amico luca mi canzona, sui miei sogni. ma in fondo mi piace a farmi canzonare così].
insomma una serie di sogni. che odg ascolta sempre con [più] attenzione quando gliene parlo. solo che ormai sistematica mi chiede: cosa ne pensa di questo sogno?
e in queste serie di sogni, spesso, cosa ne penso mi vien fuori un po' inaspettato, senza averlo meditato prima, nel roteare della realtà delle cose di questi ultimi tempi. e può capitare che le spunti il mezzo sorrisino, quasi soddisfatta, come abbia pensato pure lei la stessa cosa.
e la cosa si carica tutta di una sua metrica, ed è sensazione bella. niente da dover dichiarare, niente dogana, niente formalità. e mi viene anche un po' di groppo in gola, quella specie di commozione che vibra da dentro. un po' stupita come quando chiudi l'ombrello perché improvviso ha smesso di piovere, e si apre il cielo. cose così.

poi, ma solo solo alla fine del raccogliere le foglie, mi è sovvenuto che proprio oggi sono trentaseimesi che ho saputo di avere un lavoro. che allora un po' mi cacavo un po' sotto. e sapevo che non era la cosa che faceva per me. ma non era il caso di far quello troppo difficile. ed il fatto è che a parte le trentaseifatture, e i conti messi in sicurezza, ho scoperto cose che non sapevo. cose di me, dico. cose che non so se avrei sospettato potessero venirmi fuori così. roba che ora non voglio scappare da lì. anche se posso andare. e che i sogni, in fondo, me lo raccontano.

e quindi, senza cercare troppe risposte, senza troppe perplessità. si ha da andare [anche] molto più lontano. e ancora più su. [pensando a dei sogni così].

Friday, November 17, 2017

di storie di padri e in parte di libri

c'è buucsssiti qui. per questo son rimasto qui. anche per non tornare colà proprio oggi. ma soprattutto son rimasto per buuucsiti. due anni fa, buuuuccisiti2015, ebbi una specie di epifania. seguiti da una serie di altri piccoli entusiasmi, che mi spinsero a pensare di portar qui la residenza. e spostarla da colà.
quell'epifania, non realizzata, è stata una specie di bordone di fondo nella nenia triste che ha accompagnato i mesi complicati dello scorso anno e un pezzo di questo. mesi che si sono acclarati complicati proprio a ridosso di bucccisiti2016. per quanto non ricordo nemmeno di esserci andato, a buuucsiti2016, dico.

anche questo buuucsiti è un'ordalia di incontri. in ufficio, mentre spegnevo il picccì prima dell'inizio del uichend, mi son messo lì a scegliere in maniera rabdomantica quelli che avrei potuto farmi 'stasera, l'incipit di un uichend dove conto di sfondarmi - di eventi - quasi in maniera compulsiva.

ne ho scelti due.

uno era alla scuola belleville. scuola nel senso di scuola di scrittura. più che di fitzgerald - nel senso di f. scott - e della nuova pubblicazione di suoi racconti di cui si parlava, era l'idea di andarci, in quella scuola. di odorarne la sensazione di starci dentro. che ci sarà pure una holden a torino. ma una belleville a milano con me è vincere facile. come con un bimbo con le lucine delle case e delle strade di un plastico di ferromodellismo in bella vista, dentro una vetrina di un negozio di giocattoli. e quando passano i trenini, con altre lucine, ovvio che il bimbo sgrana gli occhi e ci appoggia sopra le mani, alla vetrina. un po' quella cosa lì. e quando sono uscito da belleville la scuola era come se ci fosse rimasto il segno delle mani sulla vetrina. cose così.
belleville.
magari ci ritorno.

dopodiché sono andato al planetario. presentavano un libro. entro nella sala planetaria. subito mi colpisce una donna. è fenotipicamente magnetica, sola, sul seggiolino rotante sul proprio asse, originale anni trenta. me son guardato di sedermici vicino. e mi son seduto nei pressi di altre due ragazze, sole pure loro. vabbeh.
presentavano un libro, ma prima di quello hanno fatto partire quella roba con cui simulano il tramonto e diventa notte, ma come le notti a milano - e non solo - non potranno mai essere così buie. e compaiono tutte le stelle che si possono vedere a occhio nudo. tutte! quella roba è una figata. quel momento è sempre emozionante. anche perché pensi sia arrivato il buio più buioso e tutte le stelle, e invece va avanti ancora un po' a diventare buio, e a comparire altre stelle. pensi sia del tutto buio e tutte le stelle. e invece no, va avanti ancora. questo fai tempo a pensarlo quattro, cinque volte.
capitò ci portassi una persona solo per farle vivere quel momento, quei trenta-quaranta secondi di magia. però lei andò in bagno, pensando di far in tempo prima che arrivasse l'inizio di quel momento con cui l'avevo suggestionata. vabbeh.

presentavano un libro. l'autore, eminenza dell'astrofisica italiana e mondiale, scomparso qualche mese fa, prima di vedere pubblicato il lavoro. ora è nel famedio al cimitero momunentale. il libro lo presentava il figlio, emozionato.
anche se il libro è stato un modo, per lui, di parlare di suo padre. anzi, di papà, per come l'ha sempre chiamato. poi vabbeh, l'ha fatto con una ingegneristica banalità, come a volte son banali gli ingegneri. [la scintilla che ha un padre non è per nulla detto debba averla anche il figlio].
però mi son visto un po' da fuori, mentre ruotavo un po' da una parte, un po' dall'altra, il seggiolino rotante, originale anni trenta.
mi son visto mentre ascoltavo qualcuno che raccontava di suo padre. e chi se ne fotte di come potesse raccontarlo, e chi se ne fotte di quanto potesse essere grande il padre da meritare un posto nel famedio.
c'era qualcuno che raccontava di suo papà.
proprio oggi.
magari ci sono arrivato per caso. come a belleville la scuola.
o magari no.
per quanto, se non è così, è perché l'ho scelto io. più o meno radbomanicamente.

nel presentare il libro, il figlio che parla del proprio padre - proprio oggi - ha anche titillato il fatto sia un libro - di astrofisica ed oltre - che dovrebbero leggere gli adulti di domani. magari non subito. quando verrà il momento. per le idee che suo padre - a questo punto - ha lasciato in eredità a tutti. ai giovani, soprattutto.

ho trovato il regalo per mio nipote.

Sunday, November 12, 2017

ennnniente. mi pareva un buon modo per tornare a scrivere. per il genetliaco viburnesco, dico

la viburna è una persona importante, per me.

è stata presente ad una delle mie [tante] ripartenze, forse financo concausa. uno inciampa, rimane incerto se e come rimettersi in bolla, e poi riparte.
appunto.
in quell'occasione c'era [anche] lei.

è donna molto intelligente. a volte pure troppo. cioè, no, rettifico: una persona non è mai troppo intelligente. però può accadere che, in certe situazioni, per una ridda di coincidenze, l'intelligenza - specie se tanta - incasini un po' le cose. a volte in un modo, a volte in altre. così a volte diventa decisamente rompicoglioni. la viburna dico. lo posso scrivere perché siamo andati molto avanti nel volerci bene. lei parla di calzinismo, nel senso che si ha quella confidenza di quando si possono lasciare i calzini in giro, che si dà per scontato, ovvio, che l'altro lo sappia e lo accetti: come dato di fatto e non più disquisibile.
io non sono d'accordo. o meglio: dò una lettura che parte guardando dall'altro lato. cioè che uno possa sentirsi così accolto che può non aver timore di sentirsi giudicato, quando mostra gli ambiti meno encomiabili. o i calzini. non che sia orgoglioso di mostrare alcuni ambiti meno encomiabili con lei. o i calzini. ci mancherebbe.
però capita. specie quando scazziamo. perché capita ogni tanto. c'è stato un periodo che capitava più spesso. probabile perché eravamo un po' meno centrati entrambi. io sicuramente. la prima volta accadde in una perfetta serata di maggio. niente luna, un cielo stellato da far commuovere. volevo comunicarle una cosa che pensavo le avrebbe fatto piacere, arrivammo a tirarci calzini puzzolentissimi. figurativamente ovvio.
anche perché avvenne tutto in maniera mediata dal mezzo elettronico.
già.
perché la viburna ed io interloquiamo praticamente solo così. e tutto sommato è già un risultato mica da poco che attraverso quel mezzo - no metaverbale, no paraverbale - con due teste piuttosto laocoontiche, caratteri calzinisticamente piuttosto suscettibili, noi si riesca a condivedere così tanto.
e non ci si scazzi sistematicamente.

e comunque, quando si scazza, ho ragione io.

la viburna oggi compie gli anni. e sono quei compleanni che sono contento esistano. perché regalano quelle persone. che magari al prossimo compleanno non mi verrà di scrivere un post genetliaco. ma in fondo è già tanto quello che è stato fin qui. e nessuno ce lo potrà portare via. al limite solo noi: se si vorrà dimenticare.

la viburna è conoscenza piuttosto nota ad alcune persone importanti per me. anche se solo un paio l'hanno incontrata. la notanza, o notitudine o notevoleria credo derivi anche da come la racconto e per quello che riverbera in me, di lei. e comunque posso assicurare che - casomai qualcuno delle persone che non l'hanno mai incrociata passasse di qui - la viburna esiste, e non è un frutto della mente come ammmmiocuggggino [cit.]. [e tra parentesi posso anche arrivare ad intuire, per quanto si evidenzi con qualunque mise indossi, abbia anche delle belle tette].

la viburna è una donna molto colta, oltre che molto intelligente. ha ottenuto [per lo meno finora] solo una parte di quel che merita. i giri e gli arzigogoli del divenire delle cose, a volte, sono degli arabeschi faticosissimi. che però si percorrono. per quanto uno avrebbe anche il diritto di non avere più il dovere di farlo.

la viburna è colei che, oltre la doppia lievitazione della pizza, mi ha consigliato "le correzioni", titillando che 'sto franzen avrebbe potuto interessarmi, e molto: solo per questo meriterebbe un post alla settimana. una volta quasi scazzammo perché mi aveva bagnato il naso sull'aver capito che il plot di "miele" era in realtà un meta-racconto [sono una testa di minchia, a volte, lo so].

la viburna ha corretto alcune mie bozze. roba che in certi momenti ha significato qualcosa di non molto lontano dal livello di intimità, intellettivo-emozionale, cui ha accesso odg. naturalmente ha migliorato quello che avevo scritto. eccome se l'ha migliorato.
ho scritto un racconto, qualche mese fa. in maniera improvvida lo avevo caricato di troppe aspettative. l'ha editato lei. più volte mi ha sottolineato non fosse la cosa migliore avessi scritto. e poi, qualche giorno fa, l'ha definito immaturo, spiegandomi cosa intendesse con quell'aggettivo. e perché lo considerasse tale: immaturo. il fatto è che ha centrato in maniera imbarazzante il punto della questione. imbarazzante per me, dico. per quanto con lei non mi venga più di imbarazzarmi. occhei, lei aveva qualche elemento in più rispetto agli altri che lo hanno letto. oltre che l'intelligenza di cui sopra. resta il fatto che ha sgamato un quisquilia che io non ero stato capace di ammettermi del tutto. ma che sospettavo fosse lì, in bella nuce. riassumendolo, 'sto fatto, si potrebbe tuittare con un: quando il revanscismo non funziona come principio ispiratore. perché azzoppa, limita, inchioda attorno ad un punto, ma non è detto che le ellissi che ne escono siano così interessanti. ed un altro fatto è che quando me l'ha detto mi è parso meravigliosamente chiaro. una specie di piccola, rasserenante epifania. forse era arrivato il momento. forse ora siamo enrambi un po' più centrati.
sarà.
ma 'sta cosa non è roba di tutti i giorni.
e non è roba da tutti.
anche se forse non riesco a farlo intendere come vorrei, o come lo senta dentro.

ma quella piccola epifania è un po' il suo regalo per me. anche se il genetliaco lo fa lei.
d'altro canto il giorno del mio ultimo - auto-realizzato-merdosissimo - compleanno le ho regalato un albummme der principe deGre.
è che noi ci si fa i regali a chiasmo: se li compie uno, il presente va all'altro.

[ed in fondo, il post, è anche un po' per me].


Saturday, August 26, 2017

sbandimenti

al solito ho bisogno di lasciar sedimentare un paio di giorni alcune cogenze delle gnius. tipo i rifugiati sfollati con sfollagente in piazza, a termini.

no. la sensazione è che non ci siamo proprio.

forse si sta raggiungendo il famoso angolo in cui ci si sta cacciando tutti, figurativamente. e da lì poi lo sbandamento sarà il modo di riuscire ad orientarsi.

non ci siamo. non c'è possibilità nemmeno di chiamarli clandestini. manca pure l'alibi al salvinismo che c'è in ciasuno [in tanti troppo, in pochi nulla]. non c'è, o non dovrebbe esserci, il gancio a quella tipizzazione: arbitraria, qual è il marchio di una legge - che guarda verso orizzonti di stigma sociale, massì diciamolo, infamanti - che più che normare vuole categorizzare. sono rifugiati, il cui diritto di asilo è incastonato nella Costituzione. sono persone di cui lo stato dovrebbe prendersi cura [ci sono anche italiani che avrebbero bisogno di aiuto, ovvio. ma sono categorie diverse - anche solo intuendo il concetto di categoria. e nel caso ci fosse qualce salvinico che passa per di qui].

non ci siamo. non si lasciano allo sbando, per anni, disinteressandone. abdicando in senso trasversale negli ambiti dell'amministrazione e della politica. lasciando andare le cose perché i problemi sono altri. perché prima ci sono gli italiani. che alla fine diventa una guerra tra poveri. pelosa e sottilmente merdosa, come tutte le guerre, anche quelle solo figurate. che poi la questione diventa un problema di ordine pubblico. e coloro che diventano un problema di ordine pubblico - percepito, prima che reale - sono gli sbandati dello sbando. ma in questo tipo di sbando gli sbandati sono l'effetto, non sono la causa. la causa. e le cause sono tante, tantissime. e si riassumono, tra l'altro, nella la banalizzazione del pensiero politico che il sindaco della capitale d'italia deve occuparsi prima dei romani. e lo dice quello che si pensa già il prossimo presidente del consgilio [sic!], non so quanto cosciente del fatto quella sindaca stia facendo poco o nulla, tanto meno per quelli che partono da sbandati: italiani-romani e no. lo sbando è sia vissuta come emergenza, perenne, insostenibile, la questione, con la sintesi nel proclama ci saranno le barricate per non ospitare qualche decina di costoro. che poi, magari, la questione esiste, e potrebbe non essere opportuno mandarli proprio lì. è l'approccio che anima la questione dentro lo sbando.

non ci siamo. perché l'inazione e lo sbando dell'ordine pubblico viene gestito come si è visto. alle sei di mattino, poca gente attorno, poco circo mediatico, sicuramente nessun politico/amministratore. che facciano il lavoro sporco quelli preposti. che lo fanno e non possono che farlo come i bracci operativi dello sbando. idranti e cariche verso chiunque, come facinorosi pericolosi qualsiasi. gestito in maniera spropositata, violenta, rabberciata. nei filmati alla fine si vedono sciamare, rincorrere le persone sfollate in mezzo ai turisti e coloro che escono dalla stazione termini. manganelli e opliti tra trolley e zaini. come se tutto si stesse squagliando e non si riuscisse a tener compatte le cose. lo sbando. dalla gestione di quello ridotto a ordine pubblico su su su, fino alle responsabilità di quelli che avrebbero dovuto fare. e non hanno fatto. perché inetti, o irresponsabili.

non ci siamo. perché tutto, a parlare di migranti, accoglienza, rifugiati, si è squagliata, in tante e troppe persone, la consapevolezza della complessità. e si sbanda nel proclama dell'emergenza, della chiusura, del fuggire la responsabilità. e buttandola in rissa pre-analitica, chiacchiericcio salvinico, dibattiti infuocati alla tivvvù e il seme del disorientamento nella pancia della gente. la quasi resa del compito della politica.

non ci siamo [quasi più].

[piccola parentesi finale. che forse non c'entra. ma forse sì. sto leggendo un libercolo-pamphletdenoarti di piergiorgio odifreddi. dizionario della stupidità. il matematico più mediatico nei massmedia italici se la prende un po' con tutti, o almeno con ampie categorie di persone. enunciandone, o provando ad argomentarne, la stupidità. fa quasi tenerezza vedere tanta ostentata sicumera. a dire il vero, nella premessa, celia sul fatto che un po' stupido possa esserlo anche lui. non ho capito quanto per convinzione o per paraculaggine.
comunque.
in quel libro c'è una pagina anche sul senso della vita. di cui è [ovvio] stupido cercarne un senso. lui ne fa una questione di anti-semantica e anti-metafisica.
ebbene.
può anche essere che abbia ragione lui. e non ci sia un senso. se non quello di sopravvivere per riprodursi per preservare la specie. per quanto un senso più essenziale, innegabile. tanto che non basta ad un sacco di persone, che per questo sono stupide, stando al suo ragionare.
ecco.
forse ha anche ragione. però, suvvia, nella mia stupidità, e senza aver pretese di stabilire cosa sia il senso, ho la percezione, vivida, che anche sdegnarsi per episodi come questi assomigli ad un qualcosa che comprenda il fatto stia qui, oltre al mantenermi vivo vieppiù senza esser riuscito a riprodurmi. e mi venga da scriverci. male e sbrodolando come sempre. in fondo son pareccho stupido pur io]

Saturday, August 19, 2017

post un po' banale, sulla rambla di barcellona, e la fatica conseguente

ogni azione terroristica è un po' ormai [ahimè] consueta, e pungolo per riflettere come fosse un'altra volta la prima volta.
prima volta, perché almeno non ci si rassegni al fatto sia una cosa che riesca a far capolino nella norma delle cose. se ogni volta c'è un pungolo, si prova a guardar in faccia la complessità della cosa.
anche perché questo ho voluto lasciar passare un paio di giorni.
avevo bisogno di leggere lo scorrere delle notizie. attendere il clangore delle opinioni. lasciar che tutto distillasse qualche straccio di pensiero.
e questa volta, lo spunto, tra l'altro me l'ha dato ada colau. che poi sarebbe la sindaca di barcellona. quella che ha deciso di prendere dalla parte più complicata, ma credo utile per l'intelligenza collettiva dell'umanità, la questione dei migranti. noi, a milano, ci siamo arrivati il ventimaggio. l'idea l'hanno avuta loro. o forse proprio lei.
comunque.
ada colau ha dichiarato, poche ore dopo l'attentato, che "Barcellona è una città di pace ribadendo che il terrore non avrebbe cambiato la natura della città. Ovvero che Barcellona continuerà ad essere una città aperta al mondo, coraggiosa e solidale".
questa volta non mi sono sentito ammantare, quasi orgoglioso, di voler ribadire voglia far così anch'io. specie per quel che riguarda la faccenda del terrore che non avrebbe cambiato la [mia] natura.
cioè.
questo ormai, dal mio punto di vista, è istanza che voglio continuare a sentire, e sostenere. forse per questo meno pelledoca il pensiero di questa prouditudine.
però, mentre cucinavo il farro, giovedì sera, ho pensato che ada colau stava - di nuovo - prendendo la strada più complicata. ma che, di nuovo, è l'unica da fare. se il senso è quello di farla evolvere, collettivamente, 'sta fottuta umanità.
provo a dettagliare un concetto forse già chiaro di suo.
la paura [il terrore] è una emozione installata nel kernel del nostro cervello. è roba che ci portiamo dentro da quando eravamo sugli alberi. forse prima. la paura, al pari della rabbia e della tristezza, sono funzionali alla prosecuzione della specie. sono emozioni negative. ma senza di quelle ci saremmo già estinti, e forse saremmo ancora in tempo ad estinguerci.
poi vabbhé. siamo scesi dagli alberi, abbiamo messo su un po' di struttura. siamo diventati senzienti con la consapevolezza della nostra senzietà, e del nostro essere, della nostra finitezza. e quei tre sentimenti negativi, sono un'eredità importante. servono ancora, eccome. solo che su marchingeni così complessi come siamo, a volte, qualche casino lo creano.
ora.
ada colau ribadisce si debba andare nella direzione di mandarla un po' affanculo la paura. ma è qualcosa di antigravitazionale. che poi, occhei, fa l'effetto di elevarsi. che, guarda caso, è la similitudine che associamo al crescere, all'evolvere. è chiaro che è fottutamente più semplice aver paura. ce l'abbiamo nel kernel. invece un'altra istanza ci dice di andare nella direzione opposta. verso quella che - verosimilmente - è la chiamata alla nostra natura. nostra. di tutti. mi arrogo l'idea di coinvolgere l'umanità.
quella natura che non ha paura, e che lo fa in nome di certi principi di solidarietà che è roba antigravitazionale pure quella. perché, in ultima istanza, significa rinunciare ad un pezzo del qualcosa che è [solo] mio, per farlo [anche] di altri, o [anche] di tutti. al netto del quanto e del come è chiaro che non è come il sasso lasciato andare al decimo piano del palazzo: che tende ad andare in giù. no, qui si tratta di lanciarlo il sasso, verso l'alto [che poi, sì, cadrà giù, ma non sottilizziamo troppo, forse ho preso la similtudine non perfetta].
insomma, andare contro una natura per seguirne un'altra.
solo che è più complicato. però [forse] è l'unica strada da fare per andare avanti. o più in alto. che poi è il senso perché noi ci si sia, ho la vaga idea. il riprodursi e starsene vivi è la componente accessoria [poi si muore, occhei, è funzionale al mantenimento e quindi evoluzione della specie].
ecco.
appunto.
evoluzione.
pare che siamo ben dentro la convizione che per evolversi non basti mantenersi vivi [ed i tre sentimenti negativi servono a quello]. ma anche far cose antigravitazionali. anche se è cosa faticosa.
non so se ada colau pensasse esattamente a questo. ma in quello che ha detto mi pare di vederci, in controluce su campo lunghissimo, qualcosa di simile, omologo.
è per questo che tutte le istanze che titillano solo ed esclusivamente la paura sono contronatura. più comode, certo. come far cadere il sasso. ma fanno tornare indietro.
nell'italica masnadia della classe politica [che la parte di classe dirigente che dovrebbe educare i cittadini alla responsabilità della democrazia basata sui diritti-doveri], quasi tutti fanno un po' quello: fanno cadere il sasso verso il basso. ovvio, con diversi gradi di salvinità. ma, quasi tutti, a loro modo e con diverso grado [ribadisco: diverso grado, non sono tutti uguali, ovvio] ci fanno tornare indietro. abdicano al ruolo di classe dirigente politica. che poi è una delle colpe peggiori.
e siamo tutti un po' soli.
anche e soprattutto nella complessità del mondo che ci si irradia addosso. sempre più complicato.
provo a metter in campo, per quel che posso far di mio, quella manciata di strumenti culturali. e l'irrefrenabile automatismo a ragionarci sopra, psicopippa o meno: vuoi con la complicità della solitudine, creativa, da certi punti di vista.
ed in tutto questo, titillato dalla colau, mi viene naturale pensare [e sono contento che ora, oggi, mi sia appunto naturale] che io no tiengo miedo.

Monday, August 7, 2017

i codici di comportamento e i pungoli

io mi son fatto un'idea.
da quando un certo tipo di mainstream ha cominciato a sputtanare le ong che si adoperano a salvare i migranti, quelli in mare.
sputtanare, sì.
con un metodo anche piuttosto peloso: trovagli una definizione che non offende smaccata, in prima battuta. però insinua un piccolo tarlo. e glielo associ. usi un caso singolo, sfiorato dal dubbio, e applichi in maniera estensiva. una metonimia da stronzi. "taxi del mare". si parte dalla [ri]definizione. si [ri]crea il fondamento, la percezione. e si mette tutto in circolo. tipo il sassolino, piccolo, nella scarpa, che poi a furia di camminarci sopra comincia a dar fastidio, sempre di più.
peloso, no?
non sono un retroscenista similgrillinico. quindi non penso che questa cosa sia stata pianificata scientemente a tavolino. si è presentata l'occasione. è stato comodissimo infilarvicisi sopra. con vari gradi di virulenza, anche a seconda di quanto è importante il grado di salvinità, e tutto il becerame politico che tutto questo comporta.
niente di così nuovo rispetto alla storiella della calunnia, che è un venticello.
io mi sono chiesto perché, allora.
a maggior ragione me lo chiedo ora.
perché farsi delle domande è un altro modo di sentirsi libero. anche quando la domanda pare un po' curiosa.
perché?
penso che la risposta non debba essere per forza una sola. oppure possa declinare in vari modi.
quindi provo a rispondermi.
il fenomeno migratorio è, oggettivamente, una questione che determina complessità che soverchia tutti. diciamolo: un puttanaio.
esiste da che esiste l'uomo. non finirà non ostante tutta la salvinità ci si possa inventare. questo qui, quello in cui siamo coinvolti come europa, durerà decenni. non ostante il parere contario dello slogan salvinico: aiutiamoli a casa loro [che permea la salvinide un po' abbastanza ovunque].
i fenomeni complessi richiedono analisi importanti, per cercare di trovare sintesi che gestiscano, o ci provino, la complessità del fenomeno.
la classe dirigente europea non è, molto probabile, all'altezza. figurarsi quella italiana, permeata dalla salvinità.
e in tutto questo il fenomeno migratorio è un pungolo morale. penso anche laddove le percentuali di salvinità sono molto alte [ecco, forse giusto manca nella fognitudine fascista, ma è altra categoria, quella]. perché il dis-sperare di ciascuno che se ne viene via - come se ne vengono via - dalla propria terra di origine è qualcosa che intuisce chiunque. magari giù in fondo alle cose che sembrano rumore di fondo. ma c'è. che uno negherebbe spergiurando salvinicamente, ma c'è. non ci sono persone migliori o peggiori a percepirlo: ci sono persone diversamente informate e/o empatiche.
non sto dicendo che questo risolva la complessità.
anzi.
sto dicendo che è un potenziale aumento della complessità. perché implica il fatto che potrebbe venire di averne cura: take care, a 'sto giro l'inglese funziona meglio. ed averne cura è - mediamente - più complicato che ignorarli. perché significa rinunciare ad un po' del mio io. in fondo sono due istinti naturali contrapposti. salvaguardare il mio e rinunciarvi, solidarizzando. il primo forse è più basico, serviva quando stavamo sulle piante, il secondo guarda avanti, permette di costiture il senso di comunità.
insomma.
un puttanaio.
e in quel puttanaio il salvinismo che permea la classe dirigente sceglie la semplificazione. vien via più facile, si capisce meglio, non comporta sforzi per dare l'esempio. masssssssì, la storia della pancia delle persone. che dal punto di vista elettorale ha sempre grande resa.
e il pungolo morale di cui sopra?
facile.
anche la salvinità ha capito che prendersela con i migranti non è efficace. sarà la storia del pungolo. sarà che sono massa troppo indistinta. sarà che sono ancora altro da noi, fintanto che non arrivano qui da noi. sarà che anche la salvinimica de "aiutiamoli a casa loro" porta dentro un abbozzo pezzottato di solidarietà.
quindi il bersaglio ideale sono chi li aiuta. soprattutto le ong. non-governative. significa essere affrancati dalla salvininiade. il salvinico senso del controllo governativo non c'è. sono libere. ed in questa libertà c'è un potenziale pericolo per il mainstream salvinesco.
e soprattutto ribadiscono il pungolo morale. fanno quello che ognuno sa andrebbe fatto [inversamente al grado di salvinità che lo pervade]. e questo è fottutamente fastidioso [in maniera proporzionale alla percentuale di salvinamento]. le ong illuminano la cattiva coscienza che ci portiamo dentro: tanto o poco. e lo fanno senza troppi compromessi salvineschi.
ovvio che tutto questo è abbastanza insopportabile, mediamente per il mainstream. tipo il secchione in classe. lui cazzo sì che la sa la lezione. se me ne sto a salvinizzare come un salviniade qualunque in fondo alla classe me la devo giocare: massì, mi sembrava di aver visto sul libro che bisognerebbe aiutarli a casa loro, ecco, sì diceva più o meno questo. e poi, al limite, il secchione lo sputtani. ma con pelosa salvineria, poco a poco.
taxi del mare.
ed imporre un codice che - lo sai, ministro dell'interno - non potrebbero mai accettare è un attimo.
e così diventano, le ong, quelle irresponsabili: tutte.
ed il giochetto è riuscito.
fatto.
sputtanati.
e noi, paciosamente, ci godiamo questo mainstream salvinizzato.

[chiosa più tranchant finale: limitare l'azione delle ong significherà solo una cosa: far aumentare i morti. i flussi migratori non diminuiranno. la complessità del fenomeno non ne sarà intaccata. la pancia della gente continuerà a percepire un pericolo artefatto. moriranno "solo" più persone. morti della cattiva coscienza. [a volte sarebbe piuttosto rinfrancante credere in qualcosa che, ad un certo punto, arrivasse anche a chiederne conto]]

Sunday, July 30, 2017

l'altro pezzo del post sperimentale [vediamo se lo finisco ora]

il primo pezzo è due post indietro questo. nel caso.
dicevo di baricco. e della personalissima epifania a leggere "oceano mare". e dell'idea sbilenca di aver provato, per la prima volta, che in quella cosa - scrivere - potevo sentirmici dentro. non come avevo fatto fino a quel momento e - ribadisco - qualsiasi cosa potesse significare. scrivere dico.
ora.
provai a scimmiottarne lo stile. che non è mai una cosa così originale, ovvio. come mi ricordò con questa ovvietà, financo quasi banale, una collaboratrice dell'aziendina rovinata, e che mi ha rovinato un bel po' dell'esistenza recente [dopo magari ci torno, si ri-aggancia ad un discorso]. personaggio molto sui generis questa collaboratrice, proprio tanto. un talento. forse ancora di più dello stylist che arrivò prima di lei. solo che lo stylist era pregno del suo valore. ed a volte l'effetto dell'autoconsapevolezza, e dei variegati modi con cui lo manifestatva era abbastanza irritante. lei invece altra pasta. tra le altre cose sembrava che la storia dell'arte, l'essenza, il punto dipanante, le fosse stata infusa. tipo le proteine del latte materno. poi eccelleva in altre cose, per quanto non mi interessassero così tanto. però eccelleva. un talento. lei non so quanto sapesse di esserlo. o forse gliene fregava poco saperlo o farcelo sapere. comunque. costei un giorno, parlando di una sorta di artista con cui si collaborava, mi disse: se costui [l'artista nostro] ti ricorda troppo quest'altro [un artista dell'umanita] allora significa che non sta inventando nulla, ed è lontano dall'essere un artista in senso compiuto. va precisato che non usò quelle parole. e che tutto sommato si può essere artisti in senso non compiuto e godersela, nella propria artistica non-essenzialità, come se la gode il nostro di artista, o quella roba lì.
ecco. io lo scimmiottavo [scimmiotto?] [parlo di baricco, se si fosse perso il filo del discorso] perché avevo trovato una specie di via. un qualcosa che mi sentivo conforme, anche solo a scopiazzare. e a culo se non è cosa originale. volevo giocarci pure io a quel gioco lì. giocando più o meno così. intuivo potesse essere divertente a ripetere quei gesti.
poi - di nuovo - nel tentativo di scimmiottamento c'era da piallare, rintuzzare, ri-ordinare, sgrossare. magari senza usare un proluvio di avverbi. magari stirando il fluire semantico: linee dritte, o con curvature gentili, ma non arzigogoli con frizzetti e laccetti e fiocchetti. i punti angolosi, in natura, non esistono.
e poi c'è anche l'altro punto però.
che poi sarebbe l'idea che sta dietro a questo post.
e l'eco che ho sentito nel leggere i nuovi barnum.
occhei la forma. lo stile scimmio-scopiazzato. la storia del come. ma poi c'era il punto, il grumo cogente: il cosa.
perché fintanto che ne leggi i romanzi, guardi la cattedrale incernierata sulla scrittura creativa. che è un mostro complicato assaje. almeno per me. io provavo a scopia-scimmiottarlo, ma damned, c'era da inventarsi una storia. o ci sarebbe stato da farlo. ma roba che riesce giusto il primo guizzo. come quando iniziai a leggiucchiare il cirillico bulgaro. fico: accidenti, ma poi avrei dovuto anche capire che c'era scritto, e prima ancora anche ricordarmi degli accenti che le parole non sono mica così tanto piane come in italiano. sdruccioli sull'abbondanza delle sdrucciole, gli accenti, dico.
quindi, per la storia dei romanzi baricchiani lascerei - di nuovo - cadere la questione.
perché appunto l'altra illuminazione, allora, fu sui barnum. o meglio è stata una specie di piccola epifania ex-post [nel senso di anticausale] pensando a miei post [nel senso di cosi dei blogggghe] molto post [nel senso di molto tempo dopo: cioè, praticamente quindici giorni fa].
perché leggendo i barnum, ormai sedici-diciassette anni orsono, io cominciai a pensare di scrivere i post dei miei blogggghe sgarruppati. solo che non lo sapevo ancora. anche perché non c'erano ancora i bloggghe. mi piace pensare che è stata lì l'origine di quella inevitabilità, di cui ho lucido ricordo, che si manifestò in una notte di fine gennaio del duemilasei. ci vollero una serie di coincidenze, e nemmeno tutte piacevoli, anzi. ma si arrivò lì. alla luce dell'abat-jour di quella scrivania adorna del solo picccccì, qualche ora dopo aver sostenuto un colloquio ed intuito che volevo darmene a gambe levate dall'informatica in generale. e che volevo gestirmi il mio tempo. e che volevo trovare brandelli di cose da raccontare durante il giorno per poi distillarle la notte [ma sia molto tardi che si va a dormire]. e che quella cosa avrebbe potuto portarsi dietro un qualcosa di taumaturgico, forse terapeutico. e che cosa sublime sarebbe stata se fossi riuscito fare quello per vivere.
forse non ebbi così chiaro tutto questo, così nella cristallina tersitudine del dettaglio che ho ora. forse perché ho dovuto metterci in mezzo variegati anni, e disillusioni, e consapevolezze, e cazzi, e pianti, e sbrandellamenti, e fallimenti, e sedute, e prese di realtà, e accettazioni [poche] per arrivarci.
ex-post è facile.
gran premio GAC [cit. "gazebo", nel senso della trasmisione di raitre anche se ora passa a la7].
insomma.
credo che la storia dei barnum c'entri, eccome.
perché lì, nei barnum, c'è un giochino ispirativo-creativo-sintetico che fotte sega se i molti dei miei post sono stati scimmiottatura. di nuovo: troppo bello quel gioco. non rubo nulla a lui se lo gioco anch'io. posto che non è un gioco suo. l'ha pensato prima, e lo fa in un altro campionato. ma è qualcosa in cui il pensato di quel pensare sta prima di lui e me messi assieme. e di molto. scimmio-scopiazzo? embeh? è come se anche per lui l'archetipo di bellezza fosse la fanciulla - ora ha tre figlie - di cui mi innamorai in maniera ontologica a quindici anni. l'occhio chiaro, il capello biondo, il tratto pre-raffaellita. ma è archetipo. ci prescinde a prescindere. e soprattutto non me frega una beata sega della scimmiottatura perché è l'essenza di una specie di avventura speculativa [nel senso più alto e puro] che, la dico semplice, mi farebbe intuire, o sfiorare, cos'è il senso di compiutezza. o il senso dell'esserci. mio per me, dico.
non ho 'sto gran timore di averla sparata troppo grossa. davvero. questo, a suo modo, è un momento epifanico bello chiaro. non so se c'entri il fatto sia in vacanza. anche se poi la vacatio non esiste, come il vuoto. credo che però non sia così casuale 'sta cosa. un momento di serena consapevolezza con il baricentro ed assetto basso, che si tiene bene la strada. qui ed ora. che son trentaduemesi che non stacco. ed ora stacco.
stacco non solo dal lavoro.
ma anche da questo post.
che manca ancora un pezzo di idea, di intuizione.
proverò a giochicciarci mentre navigo. via da tutto, almeno logisticamente.
chissà se mi verrà da scrivere anche da là.
posto i mezzi complicati per.
insomma, credo che il post continui.

Saturday, July 29, 2017

rebound vacanziferi

tra un baricco e l'altro. nel senso di post, dico.
ed a proposito di dico.
ma dico io.
cioè, ma ha un senso?
sono trentaduemesi che sto là dentro.
prendo ben una settimana di vacanza.
e chi è l'ultima persona che incrocio prima di andarmene?
roba che mi son fermato al dispenser dell'acqua a bere, e costei mi si è avvicinata per bere pure lei.
ed io che mi sono scansato col bicchiere in mano mentre bevevo il primo [avevo sete, me ne serviva almeno un altro].
no.
dico io.
tra tutti le centinaia di persone.
chi?
lei.
quella che, in un attimo, prolungato nevvero, di obnubilamento estivo scorso, mi era parsa la persona più interessante da conoscere là dentro. e che avevo, nevroticamente, messo su una sorta di piedistallo. quella che mi sembrava una specie di mosca bianca là dentro - invero anche per il colorito sul diafano, ad iscastonare l'occhio chiaro ed il capello liscio biondo. quella che mi appariva così colta e raffinata nello scrivere [me la menano pesantemente ancora oggi per quell'abbaglio: riassunto in un "ricordati che lei suggerisce i diari di bridget jones"]. quella che avevo pensato cosa scriverle per giorni e giorni. e non dire dei dialoghi immaginifici che mi ero possibilmente fatto. roba da coprire un discreto ventaglio di possibilità: avevo la battuta pronta.
non avevo considerato abbastanza il fatto non rispondesse affatto.
in effetti, in quel caso, dialogare diventa complicato. non riesce nemmeno a darti una grossa mano il dialogo immaginifico.
i mesi, dal giugno dello scorso anno fino alla primavera avanzata di questo, sono stati duri. lei è la protagonista femminile principale dalla parte dello storytelling bigio, ed un po' deprimente.
ogni tanto la sogno. è il fatto non mi abbia risposto. non è lei in se [contina ad avere un viso che mi ammalia. delle belle tette. ed un culo che un filo deborda - un filo un filo lungo] ma è l'eponimo di colei che non mi risponde. che si sottrae a qualsiasi forma di confronto. il rifiuto.
naturalmente anche oggi.
nemmeno un cenno di cordiale scambio impersonale, nei fondamentali di quando due persone stanno convididendo uno spazio relativamente ristretto: quello attorno ai dispenser dell'acqua.
dico io.
l'ultima persona che dovevo incrociare.
ostinatamente muta e rimbalzante. [lei sa chi sono. quello che le mandò quel messaggio - sgarruppato, forse - prima di cominciar a vedere tramontare in maniera mesta l'estate].
anche per questo mi è partito un rebound un po' complicatino.
d'altro canto se dopo tutti questi mesi ancora succede così - e non è che fossi così innamorato di lei - è probabile che le sedute da odg non siano un lezzo che mi colgo, così, 'ché dà un tocco di glamour.

ho risolto - anche - facendo trentachilometri in bici.
il mio culo - indolennzito - ringrazia.

Thursday, July 27, 2017

post un po' sperimentale [nel senso che lo inizio ora, e non so quando lo finisco, e magari lo cambio anche]

e niente.
ho ripreso in mano baricco, nel senso di un suo libro.
nel dettaglio "il nuovo barnum".
ed è scattato quella cosa dentro un po' strana. ci ho fatto una specie di mini-psicopippa anche sul feisbuch. che poi sarebbe quel posto dove scrivo tutto sommato poco. perché in fondo le psicopippe, e il denudamento figurato ma importante, lo faccio sotto [simil]mentite spoglie. qui, ad esempio.
come scrivevo colà, leggerlo, mi ricorda un po' come quando bevo lo shyraz yellow tail dell'esselunga. quello con il canguro sull'etichetta. che il chilometro zero e la filiera corta giocano in un altro campionato. berlo dà quella sensazione che sembra-che-è-vera-in-realtà-il-dubbio-ci-sia-qualcosa-di-artefatto-c'è-ma-te-ne-fotti. perché, tutto sommato è piacevole.
lui, baricco, usa il termine holliwodiano ne "i barbari" [che è un libro di quelli che non dimentico di aver letto]. holliwodiano nel senso estensivo della storia holliwodiana. che non è lo star-system, o lo story-telling, o tutte le menate di primo livello cui è financo facile impallinarle, manco si stesse tirando al piattello, o al piccione. holliwodiano diventa - per i barbarati - una categoria ben precisa. solo che ora ho il prurito si possa applicare anche a baricco stesso. una [auto]meta-categorizzazione a sua insaputa.
comunque.
baricco.
lui non è che proprio riesca a strapparmi brandellate di simpatia di dosso. però - mi auto-cito-nel feisbuch - lui scrive. ed io posso leggermelo. mica devo farci la transiberiana assieme. oddio: magari poi sarebbe anche interessante farci la transiberiana. perché non strappa le brandellate. però forse interessante da interloquirci.
di certo ho la vaga sensazione, ex-post, che ri-andando indietro di qualche lustro, lui, nel senso di leggerlo, sia stato una sorta di pungolo di partenza.
forse mi auto-suggestiono. ma - ebbene, dai, lo scrivo - mi verrebbe da scrivere che se dovessi provare a ricordarmi la primissima volta che ho avuto quel tocchettino di idea di provare a scrivere, è stato dopo aver letto "oceano mare".
forse devo riconoscermelo. per quanto non so quanto troverei ancora così para-epifanico quel libro.
ecco, provare a scrivere in un senso molto esteso, neh?
non velleità più o meno professionali. o giacca su dolcevita nero ed il mio faccione girato di tre-quarti mentre indice e medio sono poggiati sotto il mento di uno sguardo impegnato e lieve, e il gomito della mano di quelle dita poggia sull'altra mano, in una sorta di braccia quasi conserte per la posa della foto della terza di copertina, quella che devi aprire in fondo al libro per guardarla.
niente di questo. o almeno: non con quell'obiettivo precipuo [al limite la carambola e rimpiattino finale di una serie di rimbalzi, più che fortuiti e fortunati, del divenire delle cose. io che peraltro non credo nella sfortuna e nella fortuna. per dire].
però, insomma, dopo aver letto quel libro, il baluginio di un'idea che avrei potuto farlo anch'io. qualsiasi cosa significasse, qualsiasi cosa avessi mai avuto modo e voglia di raccontare.
lo so.
come totem fondativo sarebbe stato più da fondamenta massiccia e portante dostoevskij, che uno deve controllare su gugol, se l'ha scritto giusto.
però forse, c'era già ad attendermi sulla strada la questione della cosa holliwodiana.
boh.
chi lo sa.
e poi, a dirla tutta, ma devo farmi ormai menate oggi, che quello stesso prurito epifanico non l'ebbi leggendo "cronaca di una morte annunciata"? [sempre a proposito di libri che non riesco a dimenticarmi di aver letto].
è ovvio che a colpirmi, e farmi prudere la mano epifanica, fu il come, mentre leggevo della locanda almayer.
e, altrettanto ovvio, provai a scimmiottare quel come. solo che dovevo ancora passare per le strettoie depilando-caudine della scrematura del periodo [almeno quel fottuto master a qualcosa è servito]. e dovevo leggere ancora parecchio: in generale, mica baricco. quindi scimmiottarlo per imitazione - pronti via - e la tendenza a scrivere periodi di tre-quattro righe, con subordinate barocche, veniva fuori una specie di maionese impazzita fatta con l'acqua perrier [la più gassata al mondo, nell'epos fantozziano].
per poi scoprire - sconfinata la mia ignoranza - che c'era quel tale, quel salinger, che scriveva come lui. come baricco, dico.
ah no.
è baricco che scrive come salinger.
e la sua scuola - di baricco - si chiama holden.
pensa un po'.
[ecco, il giovane holden. nella mia prevedibilità di trentenne, è un altro libro che non riesco a dimenticarmi di aver letto. una delle cosa più sublimi che si arrotolano in uno dei garbugli più malinconici, lancinanti e struggenti mi sia mai capitato di percepire, vivido, nel leggere qualcosa].

[vabbbeh. per ora la sospendo qui...].

Sunday, July 16, 2017

i desgggiaaaavvù, però le camminate verso cignana sono meglio

in effetti sono di nuovo qui. accanto alla luce palla ed una discreta distesa di bottiglie. vuote, nel senso di già bevute. alcune di queste - probabile - le ho bevute pur io. è una sensazione piacevole. anche perché c'è dentro l'eco del sentirsi accolti, ospitati quasi come qualcuno che è di casa. a volte mi chiedo cosa possa aver fatto per meritarmelo. ora provo ad aver imparato a prendermi l'effetto taumaturgico.

questo è un luogo di affetto [al netto delle fette di salumi e formaggi che si è consumato su questo tavolo, donde sto scrivendo]. questo è anche un luogo dove - più che altrove - ho trovato una specie di plaga e di rinfranco dai tanti - troppi - momenti et situzioni che la vicissitudine dell'aziendina hanno saputo regalarmi.

tecnicamente questo è la prosecuzione di un post iniziato ormai quasi due mesi fa. siccome sono sul pezzo e rapido, lo ripiglio solo ora. e nemmeno tutto, suvvia. mi è tornato in mente quel post e un sacco di episodi oggi, mentre camminavo alla volta della diga di cignana. che è un po' lunga da spiegare come e dove per chi non ne sa molto.

sentieri che già ho calcato. sentieri che - in particolar modo tra l'altro - calpestai rabbiosamente tre anni fa. ero solo. in uno dei momenti più intricati e complicati degli ultimi dieci anni. incazzato di una incazzatura più che altro repressa per il volgere che l'aziendina [di cui decennale, il post precedente] aveva ormai preso. c'era stata una sterzata importante, definitiva. il bubbone era saltato. tanto tempo dopo si è capito che quello stapparsi è stato un bene. ma ha spurgato parecchio ed io sentivo dolore. quel pomeriggio ero partito a piedi. nervoso e scalpitante. "vado a far due passi", dissi ai miei ospiti. forse non misi nemmeno le scarpe grosse. senza averlo pianificato troppo salii un bel po'. salivo e masticavo amaro. ragionavo e dialogavo immaginificamente coi i due soci, raccontando loro l'incazzo e la sensazione di torto che percepivo aver subito, chidevo conto a loro e pretendevo mi dessero ragione e mi chiedessero scusa. salii, sudando nervoso. arrivai ad un punto di vederla, la diga. un digradare, in alto, della piccola gola che lasciava libera alla vista una porzione. era là, l'avevo raggiunta: anche solo con lo sguardo. me ne tornai.

ho ripensato a quella salita, oggi pomeriggio, che invece fino alla diga si è arrivati. e con quel ricordo ho ricordato ancora un sacco di altre salite e discese in cui mi pareva di spargere, passo dopo passo, l'ammonticchiare di tossine accumulate per questioni avvenute in quel contesto aziendalinico. escursioni depurative. odisseandare terapeutico.

quella fottuta aziendina ha dieci anni. tutto si è abbastanza consumato e accartocciato nei primi cinque-sei. dopo è soltanto una sorta di abbrivio, come un carrozzone che prosegue a luci spente, e vagola in una direzione, data dagli eventi, senza che ci si prenda più tanto la briga di re-dirigerlo.

in quei cinque-sei anni ci sono stati pochi momenti veramente felici. tanti di un lavorio che sembrava non potesse esserci altro che da far quello. meno [ma emotivamente troppi] di situazioni in cui il trovar risposta alla domanda: che cazzo ci faccio in questa situazione? è sembrato troppo complicato, intorcigliato, incistato: impossibile.

sì. anche momenti felici. tipo l'emozione quando vidi completato il primo lavoro importante commissionato. gratis, ovvio. avremmo avuto la nostra parte nel fatto di far curricolo e nei cd che avrebbero venduto. perché gazzilioni dovevano venderne. quando cominciammo quel progetto non avevo praticamente mai aperto adobe flash. nel giro di cinque mesi arrivai a vedere finito quel lavoro. e mi sentii pure un privilegiato: il primo che lo vedeva completato, non fosse altro per il fatto dovessi gestirne io lo sviluppo e l'integrazione. ero il primo. per qualcosa che pensavamo dovesse essere una killer application in ambito digital-museale. ne ero orgoglioso, anche per la sfida sviluppatoria raccolta e portata a termine. me lo gustai provando l'effetto sul monitor enorme del mac di mio fratello [anche per testarlo su quelle macchine fichette]. scrissi una mail con il cuore in mano alla socia, ringraziandola per l'opportunità mi aveva dato.

coglione.

in realtà fu l'anno dopo che si rivelò essere quello latore di aspetti che poi avrebbero riverberato disastrosamente più avanti. non che comparvero improvvisi. erano in nuce già da tempo. io ero obnubilato e non li colsi, almeno consciamente.

era il 2009. e capii:
  • che dei progetti io era quello che cubava devastantemente più lavoro degli altri. ma questo non significava arrivassi a fatturare più degli altri, anzi. dovevo sviluppare, mettere assieme, cucire tutti i pezzi.e per farlo spesso ero il primo ad arrivare e l'ultimo ad uscire. senza contare i uichend, i festivi. per un progetto praticamente senza capo né coda - lo si capì dopo, ovvio - lavorai praticamente in maniera ininterrotta quasi cinquanta giorni. ricavammo non più di 200 euro. successone;
  • che la socia riteneva di esser una abbastanza irripetibile per la gestione [ed il controllo] di un certo numero di maschi significativi attorno a lei: il compagno attuale, l'ex compagno, il compagno sublimato. io ero quello sublimato, ovvio;
  • che ero minoranza nella maggioranza. quindi va bene il nocciolo con la maggioranza del capitale sociale che decide. però poi, alla bisogna, gli altri due decidevano e stabilivano. poco importa se questo mi lasciava fuori dal consesso per stabilire quel che fare, o situazioni in cui avrei far voluto sentire le mie [sacrosante] ragioni. il cliente ha sempre ragione, taci, il senso.
poi le cose sono rotolate di conseguenza. sino a scoprire a metà dell'anno successivo qual era il paradigma con cui la socia incernierava la nostra amicizia, tra le cose più importanti pensavo stessi vivendo. un'amicizia sostanzialmente ottriata: da lei verso di me. lo capii con una battuta che fece. la sera. si stava festeggiando la chiusura dell'ennesimo progetto prestigioso. i soldi sarebbero arrivati dopo, ovvio. sulla scorta del curricolo con anche quella perla. avevo lavorato come un pazzo fino all'ultimo, ovvio. quella sera - era un lunedì, inizio giugno - la socia butto lì 'sta frase. ed io capii. quell'episodio fu la prima cosa che raccontai ad odg, pedddddddire.

ad usare un eufemismo non la presi benissimo, e non fu una botta di autostima. e tanto per cambiare c'era da pensare al nuovo progetto, che incombeva per la fine dell'estate. appunto. c'era tutta l'estate per completarlo.

in parte venne sviluppato anche qui, da dove sto scrivendo. mi invitarono qualche giorno. "ti porti il computer un po' lavori, un po' ti rilassi". se non sono crollato definitivamente quell'estate è stato anche grazie a quei giorni passati qui. allo scaricare dopaminico nel calpestare con gli scarponi diversi sentieri qui intorno. non so quanto i miei ospiti abbiano capito quanto furono importanti lì [e/o quanto sia riuscito a comunicarglielo fino in fondo].

fu la prima volta. non è stata l'ultima in quel contesto e per far scaricar il malessere di quel contesto.

ora quel contesto è passato [ce n'è un altro, ma il post è già lungo di suo]. rimane ri-edificante ed importante traguardare quei tragitti e quegli itinerari dove, mica robetta, ti vedi sullo sfondo la potenza iconica del cervino. rimane molto intimo e coccoloso scrivere da qui, su questo tavolo. illuminato da questa luce palla. una distesa di bottiglie. piene, nel senso che avrò il piacere di tanti altri brindisi, quelli da scaldare il cuore, anche perché fatti con i miei ospiti. è un po' l'effetto di quando ci si sente voluti bene.

Saturday, July 1, 2017

e se il problema del renzismo fosse renzie? [post semiserio, ma molto amaro]

massì. via. quasi quasi torno a far un post su renzie. che forse è triste tanto quanto le mie contumelie. ma almeno diversifico. posto che avrei voluto scriverci sopra dopo le ultime amministrative. che poteva andare peggio [cit.], ed io ho pensato al solito riflesso pavloviano paraculo, che si guarda il fondo del bicchiere pieno. che il resto l'han bevuto gli altri. che son solo cose locali, alle politiche va diverso [quasicit.]. che sarà pur vero però, tante amministrazioni che han governato verosimilmente bene è un peccato non siano riconfermate: il locale che paga il vulnus dell'incertezza delle politiche centrali. che vincere a cernusco s/n [con tutto il rispetto, dove abita la zia] non vale come perdere a sesto [sixth saint john, che ci ho abitato nella stalingrado italiana]. che poi alla fine i voti, quelli che ci sono, sono in gran parte per te. il problema sono quelli mancanti. nel senso di quelli delle persone che non riesci più a portare a votare. un punto cogente, su cui [un po' tutti] i politichesi hanno nicchiato.

e allora lascio andare la mia deriva più banale. e ringalluzzito dal gianmarcobachi, che lo dice meglio, anche se l'amica elisabetta le si incrocchia il podcastE durante la sigla, acclaro che forse il problema del renzismo è proprio renzie.

che mostro una raffinatezza di analisi piuttosto frusta a chiamarlo renzie, in effetti.

cioè. intendiamoci. che poi i renzieani più di renzie fanno benissimo a scandalizzarsi. e lamentarsi. ma come? abbiamo appena fatto un congresso, e delle primarie, l'hanno votato in dueMigLioni di persone, di cosa stiamo a parlà? [ormai il mantra è quello: dueMigLioni. anche se, vabbhé, non erano proprio dueMigLioni. e non tutti i nonDueMigLioni l'hanno votato, ma sono quisquilie, suvvia. anch'io che sottolineo 'ste robette qui.]. e da un certo punto di vista il ragionamento non fa una piega. si rischia di cadere nella coazione a ripetere della sinistra che si divide su tutto. [io, in quanto di sinistra sono d'accordo, ma anche no. cioè poi una parte di me non pensa sia una divisione vera e propria, piuttosto un'incompresione che si può sanare. un'altra parte pensa sia uno iato incolmabile. ebbene sì, sono scisso anch'io. e, giuringiurello, non deriva dalle mie personalità multiple. ma proprio il fatto sia di sinistra. per quanto - per formazione - tecnicamente mai stato comunista].

cazzaraggine a parte. o almeno solo in parte.

cioè. credo ci sia un problema per tutta quell'area in cui variegatamente mi ci trovo. perché renzie, mannaggia, è stato votato dai suoi. e i suoi, nell'area variegatamente in cui mi ci trovo, sono tanti. rappresentivamente parecchi. e allora, appunto, abbiamo un problema, compagni/amici/sodali. perché renzie, per come intende il porsi, è uno divisivo. e che sta in un contesto dove non è che bisogna farsi pregare per dividersi. tipo se mandi un flautulante compulsivo in una camerata di tisici messi male. [anche se, magari, dal punto di vista medico è pure una metefora demmmerda. [c'era un nesso, se non si era capito]].

cioè. la maggioranza del pidddddì ha tutti i fottuti diritti di eleggere renzie come segretario. e per la vocazione maggioritaria che - legittimamente - quel partito vuol rappresentare in un'area più vasta, far derivar la conclusione che sarà lui il candidato premier. il problema è l'effetto che fa in quell'area. e poiché ci son dentro pur io, è un problema - variegatamente - anche per me. ed è poco utile spaccar il capello a valutare se sia responsabilità di renzie o di tutti gli avversatori che via via si è creato [io, nel mio milionesimo, lo avverso dalla prima volta che l'ho sentito in tivvvvù, per dire]. perché ci si relaziona [almeno] in due. si va d'accordo e ci si scazza [almeno] in due.

è un po', facendo un parallelo moltiplicato per qualche migliaio di volte, come quando gli statunitensi eleggono un personaggio come deDonald. aiò. è la democrazia. con tutti i suoi paradossi. il problema è anche se deDonald, da sindaco del mondo, decide di far uscire dagli accordi di parigi sul clima il paese che contribuisce in misura maggiore al global warming. è tutto democrativo, neh? peccato che poi un po' di mondo finirà sott'acqua [salata], aumenteranno le guerre per l'acqua [dolce], le carestie, i fenomemi metereologici estremi e i flussi migratori di oggi sembreranno bagatelle di inizio millennio.

oppure, parallelo un po' estremo, se lo spirito santo, che onusto permea la sistina durante il conclave, facesse eleggere papa uno alla don verzé, oppure padre tam, o don mercedes. sarà pure la maggioranza dei cardinali. ma poi niente stupore se la gente cominciasse ad aprire ai testimoni di geova la domenica mattina alle 8.30, oppure ad aderire ai pastafariani, o banalmente rifugiarsi nelle plaghe agitate dell'ateismo e/o agnosticismo.

il punto è che renzie, per ragioni che non tornerei ad enucleare in questo post già sbrodolato, è un divisivo. come berlusconi, di cui è una prosecuzione antropologica. solo che berlusconi spaccava [spacca?] in due un paese. renzie spacca in due un terzo del paese: quello che in questo momento si riconosce in quell'area. forse anche perché è un elemento avulso alle ontologie di quell'area. ma in quell'area ha trovato spazio per attecchire. e di cui credo non gli fotta granché, se non fosse per il fatto sia la lunga leva che gli può permettere di comandare. che poi è l'unica cosa che credo in fondo gli fotta. visto che, tra l'altro, pare che cumannari è megghiu ca futtiri [così il vernacolo, mi fido. mai comandato, fotto pochissimo].

un leader politico, un potenziale statista, dovrebbe far sintesi, aggregando. che mi pare sia esattamente l'opposto di quello si riesca a fare con lui. l'unico pronome che deve conoscere è noi. mentre a renzie non riesce di dirlo, esattamente come a fonzie con la parola scusa, roba che gli si ingarbuglia la lingua. nel mondo ideale un aspirante leader così dovrebbe farsi da parte. perché non è leader. perché non è adatto. punto. siamo in un mondo che è tutto tranne che ideale. quindi non succederà.

e comunque è lui che alla fine l'ha detta quasi tutta giusta: fuori da qui solo sconfitta. al netto del gancio deittico mancante, cos'è il qui?, in effetti ci sarà la sconfitta. per quanto non sarà responsabilità solo di renzie. ne pagheremo un po' tutti le conseguenze, variegatamente.