Tuesday, May 3, 2016

possono i diritti umani farsi festival?

sono stato, toccata et fuga, alla prima giornata del festival dei diritti umani.
ne ero venuto a conoscenza, poiché ascoltai alla radio lo avrebbe diretto danilo de biasio. che poi sarebbe il primo direttore di quando ho cominciato ad ascoltare la radio in un certo modo. quindi, da un certo punto di vista, il mio primo direttore.
è uno che è una specie di re mida delle iniziative culturali. riesce ad organizzare cose spaventosamente fatte bene. credo che alla radio lo radiarono [la crew di radiopopolare deve essere qualcosa di devastantemente complessa da tenere assieme: si dibatte su tutto] perché, probabile, non era pragmaticamente un efficacissimo. d'altro canto è uno di quelli che culturalmente ed intellettivamente mi è sempre parso tra i più dotati.
comunque.
a parte de biasio.
era in triennale. che poi è una specie di quartierino della merenda della domenica pomeriggio solitaria quando rimango in città. e rimango solo. solo che non merendo fisicamente. però mi immergo in una qualche esposizione.

insomma.
la curiosità precipua era questa. poi, per carità, i diritti umani. roba che riluceva nei miei miti, quando pensavo avrei cambiato il mondo. l'illusorietà giovanile [devo ri-discuterne con odg. perché intuisco una bonaria critica da parte sua in questa ideologia [un po'] fuga dal principio di realtà].

quindi, appunto, il festival dei diritti umani.

ma si può farne festival?
per quanto non è mi sia posto più di tanto il dubbio psicopipponico. ci volevo andare, anche solo una scappata. anche solo per dirmi: ci sono passato. non ho capito benissimo - psicopipponicamente - perché volessi esserci. però volevo esserci. non è che tutto deve venir su, al vaglio della razionalità analitico-psicopipponica.

poi sono entrato in sala. in ritardo rispetto all'inizio. ma era tutto questo piuttosto previsto. volevo esserci, appunto. senza domandarmi troppo il perché.
sono entrato. stavano parlando due eminentissimi speaker. ho cercato con lo sguardo de biasio, che non ho intraviso. c'erano due ragazze sul palco. una pareva l'inteprete. l'altra era il soggetto precipuo della discussione: una donna stuprata dalle orde dell'isis. aveva già parlato, verosimilente.

peccato. l'avrei ascoltata volentieri, ma sarei dovuto arrivar prima. ho cercato un posto. ne ho adocchiato nella prima metà della sala. ero si sguincio rispetto alle ragazze. l'interpete parlava all'orecchio dell'altra che ascoltava con lo sguardo verso il basso, il viso in direzione normale a come la vedevo io.

finiscono di parlare. applausi di circostanza. chiedono se ci sono domande. le prime tre sono pipponcini dove uno deve esporre le proprie parole curate per ribadire concetti già discussi. e far mostra di quanto parla curato o con idee che reputa originali. solitamente non c'è mai il tono ascendente della domanda, alla fine della frase. difatti.

poi una signora fa una domanda: "cosa possiamo fare, noi, concretamente, noi persone "normali" nella vita "normale" di tutti i giorni?". sembra banale. ma non lo è. la signora è tra le prime file, è in linea tra me e lei, la ragazza cui è rivolta la domanda. quindi quando lei risponde è girata verso di me.

e a quel punto che la vedo veramente in viso. e realizzo veramente la cosa. che lei, nadia murad, e me c'è solo fottutissimo grado di separazione tra la mia vita normale di frustrato fortunato e l'apoteosi del male che è quella merdosissima cosa che si chiame daesh - come lo chiama lei, lo riconosco quando lo pronuncia senza bisogno dell'interpete. roba che prima leggi, guardi in tivù, ascolti considerazioni ovattate di quelli che più o meno hanno il culo al caldo e al riparo [per quanto, invero, qualcuno l'ha in effetti anche esposto]. nadia ha uno sguardo che racconta tutto. non c'è bisogno di dilungarsi in altro. lo sguardo racconta tutto. roba che percepisci sei a meno di un grado di separazione dell'apoteosi del male che è quella merdosissima cosa che si chiama daesh. è tutto in quello sguardo. che si è "salvato". e racconta. è la tristezza totale di un altro genocidio. che è tristezza totale non perché questa volta sono gli yazidi, ma perché è genocidio. ma è tristezza resiliente, che non si sconfigge. e che racconta, appunto. e per il fatto racconti comincia a vincere. anche per il semplice fatto che sa che daesh sa che nadia sta raccontando. esattamente una delle cose che daesh non vorrebbe.

quindi sì. si può farne festival. per raccontare, che è un modo per non far morire: appunto.










[ed ho probabilmente anche intuito perché volevo esserci, anche solo in maniera "simbolica". forse la sintesi del desiderio di cambiare lavora in maniera un po' carsica. senza che io me ne renda totalmente conto]

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