Sunday, March 22, 2015

gli elii e tutto il sincretismo musicale genialmente leggero antisolipsistico

ne sentii parlar dal teo. roba di quasi trent'anni fa. il fatto che il teo è sempre stato decisamente avanti. solo che lo era in un modo tutto suo, e con poco addentellato al conformismo di quella masnada di oratoriani che si era. genialmente cazzaro, e con ironia troppo sottile per coglierla noi tanto illuminati dalla verità rivelata, che non potevano non essere che i troppo migliori.

quindi figurarsi quando portò 'sta cassetta dove si parlava del cassonetto differenziato per il frutto del peccato. il prete disse che quelle oscenità, nel suo oratorio, proprio non dovevano nemmeno entrare: figurarsi essere fruite lì dentro. il teo abbozzò. continuò a venir in oratorio piuttosto ignifugato da quella reprimenda, quella cassetta oscena non si sentì mai più.

così che io - coll'assertività che andava e veniva - mi persi un po' di anni di elii.

poi alla lunga li ritrovai. e non poteva che essere così. all'inizio sempre con quell'eco della reprimenda di qualche anno prima. non avevo ancora capito che stava cominciando la [mia] muta. o forse semplicemente stava venendo fuori la parte più strutturata. roba tipo la storia dei denti da adulto, che spuntano fuori dopo quelli di latte. quindi li ascoltavo [uolllano, uolllano. vi saluto con l'altra mano] ma c'era ancora qualcosa che non tornava del tutto. e la storia che "per i neonati non c'è, dov'è, perché?" continuava a rimanere un elemento in sospeso.

poi li ascoltaii dal vero. erano gli ultimi giorni di riviera, al termine del servizio civile. naturalmente stavo di nuovo mettendo in scena la parte migliore di quegli anni, l'innamorato nevrotico che è lìlì per tagliarsi le vene, perché la donna della sua vita non lo caca, e si sente rejetto. mi ci portò un'altra fanciulla di cui - guarda com'è strana la vita - mi ero perdutamente innamorato solo tre mesi prima. così tanto perdutamente che un mese dopo mi ero innamorato di un'altra, colei per cui stavo inscenando la tragedia compulsiva. ci andai con costei, quella dei tremesi prima, che ormai ovviamente mi lasciava indifferente coi suoi occhioni verdi. ricordo un parcheggio complicato con la panda di lei. finimmo in piazza a pietra ligure, relativamente piena. era gratisssssse. i liguri sono sensibili a quelle cose. iniziarono con - lo scoprii dopo - "la vendetta del fantasma formaggino". tecnicamente la canzone con dentro almeno una dozzina di temi musicali diversi [giammai, giammai, non lo spalmerai], dura un sacco, è moderatamente nonsense, e finisce con delle pernacchie. nemmeno il tempo [lungo] di finire il primo pezzo e la piazza si era svuotata per metà,  in fondo era gratisssssse. alcuni se ne andavano  perplessi e poco convinti, con facce eloquentemente sovrasegmentate del tipo "checazzzzodimusicafannoquesti".

io ebbi la rivelazione fossero dei geni.

al ditemi perché se la mucca fa muuu, la pecora non fa peee il merlo non fa meeeee, la fanciulla mi cantò nell'orecchio il ritornello, felicemente e con trasporto. ed io pensai - oltre a non rimaner insensibile all'occhione verde - che ero troppo triste e troppo innamorato di quell'altra acciocché potessi condividere con lei quella sua garrulità musicale.

così, poco tempo dopo, comprai il primo cofanetto di cidddì. che ai tempi era pure una discreta spesa. ed ovviamente cominciai ad ascoltarle quasi ermeneuticamente. tornai ai loro concerti con più cognizione di causa e cantandoci assieme un gran numero di canzoni. provando financo un brivido, quando quella volta a milano, capii che quel tappeto armonico ipnotico si stava risolvendo nell'introduzione del canto di quella donna che, ostentando sicumera, nocchiera si proiettata verso il mare del duemila gridando [*]...

e poi, suvvia, ero o non ero l'eponimo del servo della gleba? era o non era la canzone scritta apposta per me. soprattutto l'introduzione. che c'era sul libretto. ma non si trovava nelle tracce del cidddì? e che poi quando ho capii come trovarla nelle tracce del cidddì mi si spalancò l'epfinania che quell'introduzione ero io? ma riuscivo - finalmente - ad intuire potessi prendermi per il culo, ironizzarmici, riderci. e per questo non sentirmi così fallito et rejetto.

ecco. appunto. anche perché poi alla fine la storia della muta, ha mutato le cose. o quanto meno ha cominciato.

perché ero serioso. troppo serioso. financo un po' tragico e melassosamente lirico. e la cifra stilistica conseguente era che, appunto, c'era spazio fino ad un certo punto per una risata. soprattutto verso di me e tra me e me. mi prendevo troppo sul serio, perché pensavo quello fosse il modo più autorevole per strutturarsi e porsi nel contesto. magari anche per marcare una distanza verso il blob mediocre che vedevo andar per la sua strada, che non si accorgeva di tutto quello avrei potuto offrire io. donne comprese. la seriosità è un modo per autoaffermarsi, specie quando probabilmente non si ha tutta questa gran stima di me medesimi.

ecco. ovviamente non sono mica stati [solo] gli elii. e ci mancherebbe. anche perché toglierei un sacco di meriti ad alcuni compagni di viaggio incrociati nel frattempo. anche perché prenderei gli elii troppo sul serio, e quindi magnificherei il fatto non ci abbia capito granché. però una qualche gradevole sincronia su quello che ho via via intuito, e via via ho ascoltato da loro sì. perché prima addensavo, ammonticchiavo, caricavo. dopo ho cominciato a far il contrario, quanto meno provandoci, da allora come ora. alleggerire, ironizzare, seppellerire la zavorrità con una risata, possibilmente intelligente e non banale. e magari anche punzecchiare le storture, che sono pesanti per natura.

che poi è quello che in fondo loro fanno musicalmente. è che sono talmente genii che ho le praterie per divertire le mie compulsioni perfezionistiche, o la ricerca ossessiva del percentile più interessante della codina della gaussiana. potrei ascoltarli ad libitum, ma qualche chicca un po' tassonomica, un po' nerd, un po' da ingengeria musicale, un po' da risvolto dissonantemente perfetto, lo troverei sempre.

poi è vero. gli elii non [mi] emozionano. non c'è un verso di una loro canzone, che tocca le corde più profonde. ma non è questo il punto e non mi serve. amo migLioni di altre canzoni di altri cantautori. ho già materiale psicopipponico a sufficienza per affondare - se volessi - nel melodramma più serioso e zavorrante. perché sono fatto anche di quello. dipende da che parte lo si vuol prendere: se usarlo a combinar qualcosa di buono, o farmicivisi seppellire.

ma se voglio combinar qualcosa di buono, è necessario fargli prendere aria. leggerezza, [auto]ironia, levità. e se me ne ausilio con qualcosa che in musica è chiccosamente geniale allora che si può pretendere di più?

per questo sono un po' una colonna sonora importante, anche se importante suona già troppo carico. una armonioso cazzaramento, autoironico, geniale, che rimane lì in sottofondo piuttosto continuo. anche solo per prendere a prestito qualche verso qua e là. e financo un po' riconoscersi.

non prendersi troppo sul serio è condizione necessaria per poter volare. e con l'elio, gas raro - come le codine delle gaussiane - volano anche le cose dense e pregne: che se sorridono lo appaiono financo meno.

ps
che non saranno emozionanti. però, a proposito di pregnanza lieve, s'ha da ascoltare "parco sempione". non c'è nulla di più interessante e sintetico che racconti lo scempio immobiliare-affaristico di pochi anni fa, nella milano ciellino-morattizzata. [...questi grandissimi figli di troia]





[*][cazzoooo, suuu-bi-toooo! - e c'è di mezzo un salto di ottava tra 'bi' e 'tooooo']

Thursday, March 12, 2015

il post del grande boh.

boh.

sarà l'emozione parassita che rincula. ma quando uno se ne va, a 37 anni durante una partita di calcetto, mi fa pensare che probabilmente un senso alle esistenze proprio non esiste.

a dire il vero bisognerebbe esserci già arrivati da tempo: basta un minimo di consapevolezza sullo scempio che la storia ha raccontato fino a questo momento. e che continuerà a raccontarci da questo momento in poi.

a dire il vero è financo un po' solipsistico pensarlo quando accade ad una persona che - se non amica - era una che si conosceva da più o meno sempre. al netto, appunto, dell'emozione parassita.

a dire il vero, solipsismi per solipsismi, è già accaduto nella mia storiucola personale. ma l'eco emotiva, di nuovo, parassita.

quindi sai che eclatante novità.

boh.

davvero. vorrei intuirci un senso.

al limite un monito. alla buona volontà qui. e prendersi il bello che viene. poi noi siamo caduchi. e il senso se lo prende o lo intuisce il concetto di humankind, che secondo me rende ancora meglio di umanità. e l'intelligenza collettiva sottesa che [mediamente] evolve, per l'azione combinata di tutti i neuroncini che siamo noi. chi fa in un modo, chi decisamente in altro.

poi un neuroncino, appunto, ogni tanto se ne va prima. e il senso di quel neuroncino, e di tutti i singoli neuroncino, boh.

davvero.

boh.

Sunday, March 8, 2015

anche io [e perché] festeggio le donne

la scrivo tranchant.

vi è bisogno della festa delle donne, perché costoro sono [mediamente] superiori agli uomini. e l'uomo di questo, intimamente, ha consapevolezza, e ne rimane frustrato. e come [mediamente] accade, i frustrati reagiscono in maniera scomposta. ed ecco le millemila forme di maschilismo. via via su fino ad incancrenire le forme di discriminazione di genere: fino a farne un paradigma nella testa microcefala di troppi, anche di donne. e quindi vi è bisogno della festa della donna.

è un po' tranchant, occhei, lo capisco pur io che sono uomo.

però fatico a non vederci un [maschilentissimo] fil rouge tra l'oggettiva ed anatomica vigoria fisica maschile, utile quando si stava nelle caverne, fino alla presa di coscienza - inconsapevole - di uno stato di minorità verso un sacco di altre istanze, che poco hanno a che vedere con l'elemento testosteronico. quando si cacciava era utile avere fibre muscolari più robuste. di più: con l'idea di guerra come elemento necessario e connaturato all'uomo. però con l'evoluzione dell'intelligenza collettiva ci si scopre necessariamente con un bisogno di "raffinatezza" sempre maggiore: perché il testosterone e basta comincia mostrar i limiti per l'evoluzione dell'umanità. accorgersi - inconsciamente - di essere quelli meno raffinati produce delle distonie interiori mica da ridere.

a volerci trovare un qualche nesso causale forse neurologico, o da quelle parti, credo che in qualche maniera sia la predisposizione all'esperienza della maternità. e la necessità di comunicare in qualche maniera con la creatura, che codifica in maniera fuori dal verbale. l'intuizione, la capacità di cogliere quante più sollecitazioni, l'empatia: tutti strumenti funzionali all'accudimento della prole. si sono poi raffinati coi millenni. ed in un contesto via via più articolato, dove queste istanze diventano sempre più precipue, col cazzo che basta uscire il testosterone maschiolattttrino. solo che quando te ne accorgi - da maschio-uomo - e ti rendi conto che sei bbbbuono ad brandire giusto quello, qualche elemento di esagitazione si rischia di generarlo. e da decaduto dello scettro che afffanculo l'alpha-dominanza le reazioni sono imprevedibili.

me ne sto accorgendo proprio nel nuovo contesto lavorativo. dove elementi di cripto-maschilismo se ne escono con una disarmante frequenza. ed a me paiono, con irridente ovvietà, casi di - appunto - frustrazione.

lo asserisco con la supponenza di maschio, ma con un'elevata componente femminile. cosa che probabilmente mi tiene appena sopra la linea di galleggiamento. cosa che probabilmente è la mia [faticosissima] salvezza. però una certa forma di [asserita] minorità l'ho sempre vissuta. e non solo per la mia scarsa autostima. ma anche per l'imbarazzo verso una qualche forma di "autorità", o elemento con una qualche forma di superiorità. per questo per anni le ho viste - le donne - come un'enigma irraggiungibile e misterioso. e forse è anche per questo che le ho raggiunte - anche carnalmente - molto, molto, molto tardi. e tutto quello che non potevo raggiungere veniva sublimato, e mitizzato. anche giusto per alimentare il senso di minorità e via circoloviziosamente discorrendo. frustrato per frustrato, non ho rivolto verso l'esterno lo sfregolio di quella inconsapevole consapevolezza. ma più o meno verso di me, punendomi.

per superiorità e minorità ciancio di cose mediamente verificate. esistono gazzilioni di donne stupide. anche se contino a pensare che i corrispondenti gazzilioni di uomini lo siano applicandosi di più. è provato come le donne delinquano meno degli uomini, tanto meno nei crimini violenti: evidentemente il testosterone non aiuta. sarebbe interessante verificare, a parità di contesti e di sollecitazioni, quanto le donne siano così inferiori nell'intelligenza logico-matematica: come si vuol far [consolatoriamente] credere. credo sia acclarato quanto invece ci siano [mediamente] più avanti per quel che riguarda l'intelligenza relazionale-emotiva.

per fortuna che quest'ultima si può imparare, coltivandola. cosa che [verosimilmente] mi sto facendo il gran culo di ampliare. che da uomo è ancora più complicato. e più di migliora più ci si rende conto delle reazioni frustrate maschiliste. e per questo [mi] danno ancora più fastidio.

tutto questo si incrocia, fino ad certo punto, con il distinguo di un sacco di donne che non vogliono festeggiarlo. per i motivi più disparati, ma che forse collassano in pochi. lo so benissimo che non bisognerebbe festeggiare una volta all'anno, ma dovrebbe essere così tutto l'anno. che la parità è ben lunga da venire. e poi tutti i distinguo dal volersene affrancare rispettabili, anche solo per acquistare quella realizzazione puntuale, nonostante la difficoltà dell'essere donna in determinati contesti.

mi limito a guardare il gradiente. assieme al constatare che un qualche cosa che va in una direzione giusta è sempre meglio che qualcosa che tende e fossilizzarsi in un posto ingiusto.
mi limito a ricordare che festeggiare oggi non è prendere atto di una realtà, per chiuderla qui, giusto col contentino di ragionamenti e mimose un giorno all'anno.
mi limito a voler guardare con rispetto, ammirazione, quell'universo che non capirò mai del tutto [e per fortuna]. lo faccio con una forma di intima incoerenza, che non posso acclarare del tutto qui. è materiale per odg, o qualche amica veramente molto fidata: che non giudicherebbe.

sono diventato con gli anni molto selettivo. anche solo per la consapevolezza di aver tutto il diritto ed il merito di poterlo essere. quando a valle del filtro personalissimo mi stupisce un uomo è sempre qualcosa di grandi festeggiamenti, nella sobrietà dell'intimità. quando mi stupisce una donna fa un effetto ancor più psichedelico. dev'essere per la mia componente femminile elevata.

 e se fanno [mediamente] fatica a parcheggiare, o girano [mediamente] le mappe stradali è solo una consolazione per coloro che sanno fare una cosa solamente alla volta.
quindi pari e patta, ma avanti assieme.

 
quella di sinistra è matreme, che stamani ha portato un rametto di mimosa alle bimbe del catechismo.
comincia ad educarle da piccole.

Tuesday, March 3, 2015

che sia l'ennesimo post genetliaco per l'amico itsoh

che se uno scrive minchiate-postiche da parecchi anni rischia, inesorabilmente, di ripetersi.
però magari ogni tanto non scrive minchiate.
e soprattutto va bene ripetersi.
anche se poi gli auguri genetliaci sono comunque diversi ogni volta.
perché, con la vecchiaia che si scalpella un pochino di più di volta in volta, ci si ammanta del portato di un po' buon senso dovuto all'esperienza. condivisa, assaporata, letta in tutto quello che è l'altro, che è stato e che è diventato l'altro.

dell'amico itsoh ho già, appunto, scritto altre volte. ed è uno di quei compleanni che mi piace ricordare e ricordar di ricordare.

come spesso accade per le persone di cui ricordo così volentieri il genetliaco, non è che si sovrappongano completamente i rispettivi punti di vista, su svariati aspetti. però, ragionevolmente, è proprio in questi casi che arriva il soccorso irrazionale: che mi piace usar in maniera antitetica gli avverbi. che poi sarebbe il fatto che con qualcuno ti trovi con un particolare fiiiiling, senza che tutto si debba necessariamente ridurre ad un tassonomia di istanze razionali per cui quel fiiiiling c'è, sgorga. senza un cazzo di perché ragionevolizzante.

mi piace ricordare quando è comparso un pomeriggio di giugno di - ormai - 22 anni fa [cazzo, giusè, diventiamo vecchi: passato più di metà della mia vita a conoscerti]. studiavo fisica due. me lo ricordo come un pomeriggio coi nuvoloni, però col cazzo di caldo che faceva era pure piacevole. ero sul tavolo della parete cucina di portaromana57 con il mencuccini-silvestrini aperto [cazzo, l'ho prestato e me l'hanno fottuto, non è più tornato indietro. uno dei più bei libri della carriera universitaria. so anche chi è quella stronza...]. ed arrivò, il nuovo coinquilino. due minuti e mezzo dopo sapevo che c'erano buone possibilità ci saremmo empatizzati per molto tempo. quell'immagine, di quel pomeriggio, è uno dei ricordi più belli di tutta l'università.

mi ha raccontato per primo di paolini. ho contribuito a fargli diventar meno antipatico il guccio. mi ha titillato il dubbio del perché i cattolici debbano dividersi in congreghe, movimenti, ordini, per poi farsi le scarpe quando il principale - teoricamente - è lo stesso. mi ha iniziato al cinema in un certo modo. mi ha fatto scoprire quella particolarità graffiante di polemizzare con alcune situazioni, o istanze. a volte pure troppo. ha dovuto lasciar milano per dimostrare - compiutamente - quanto fosse bravo. ha scritto una mail bellissima la mattina che si è laureato. mi ha regalato ricordi bellissimi un pomeriggio a roma: lui ed io dalla parte opporta di un semaforo, dopo sette anni, ma a me pareva come se fossero passati pochi giorni [accadde 12 anni fa, come domani]. ho visto nuove zone - centrali - d'italia, ma c'è quell'elemento struggente del ricordo di quando passai a trovarlo. abbiamo allargato le conoscenze blogghiche comuni. ho fatto il fotografodiverstisssmmmant al suo matrimonio. so che su là in germania, sta facendo il culo ai tedeschi a fargli capire quanto è valido.

non mi spiego come mai sia così innamorato di renzi. e se evito di sparar checchisticamente a zero su quel matteo è, anche, per rispettar l'idea dell'amico giusè. che attendo di capire il perché, il cosa mi sfugga, e che lui ha capito. così come nutro una segreta speranza che che pria o poi - spero pria - si riavvicini lui nel giudizio su illo.

sia come sia. tutto questo è quasi financo inutile. anzi, è irriso da tutto quella gran voglia di augurargli il suo felice genetliaco.
con tutta l'ironica acutezza che lo contraddistingue.

tanti auguri giusè.

Sunday, March 1, 2015

post che non saprei come intitolare, un po' lungo, e che mi fa sovvenir fin su al concetto di "radici".

[piccola premessa]
matreme ha lavorato, praticamente tutta la sua carriera, in un istituto della provincia di milano. vi trovavano ospitalità bambini, regazzini, pre-adolescenti con vari problemi: da quelli familiari a, via via, di una certa forma di salute. non era un orfanotrofio, non era una casa di cura, non era un brefotrofio, era una specie di comunità para socio-assistenzial-sanitaria in un luogo paesiggisticamente splendido. molti dei bimbi di allora sono stati adottati, oppure, diventati grandi si sono avviati verso una vita adulta "normale", nel milanese, o dintorni. i casi più gravi clinicamente, e via via ne sono arrivati, sono stati trasferiti in altri istituti della provincia, quando quello distaccato sul lago maggiore ha chiuso. oggi è un enorme comprensorio bianco che cade a pezzi sulla costa - bassa - di una montagna.
[senza soluzione di continuità dalla premessa al corpus del poste]
è qualche tempo che alcuni di questi bimbi, di allora, tornano.
tornano nel senso che vengono nella mia hometown. a pochi chilometri da quell'istituto. istituto che è poi la causa per cui matreme, da infermiera pediatrica diplomata a milano, se ne venne in quel posto così fuori mano. e poi il destino di una vita. e quindi la mia hometown, nel senso che lì vi nacqui. dove il punto nodale della questione non è il luogo, ma il fatto sia nato. e passa anche "per il mio nome, che io mi porto addosso" [cit].
comunque.
questi adulti di oggi tornano. tornano a riannodare o capir il nodo del luogo della loro infanzia. non importa per quanto tempo, ma luogo dei primi momenti dell'esistenza. tornano a cercar i posti di allora, e tutti - tutti - rimangono sconvolti a veder come cade a pezzi quella cosa un po' mastodontica che era. tornano a cercare anche le persone, ovviamente. perché quelle persone sono state la migliore approssimazione del concetto di famiglia, quando si strutturavano le fondamenta dell'esistenza di una donna e di un uomo. tornano a cercare un'eco del loro passato, vissuto in quell'alterità rispetto alle situazioni "normali". tornano a cercare brandelli del loro essere, di quello che sono stati, perchè evidentemente il concetto di radici sa colorarsi di una sua relatività, o polisemia.
per certi versi per mia madre è uno shock [positivamente] emotivo ogni volta. di alcuni si ricorda benissimo. di altri non tutto, o proprio poco. in un paio di casi si è adoperata a ricostruire pezzi di storia. pezzi di famiglia, coinvolgendo ex colleghe, bimbi di allora che si erano allontanati di meno.
è uno shock emotivo perché è come se si ricombinasse il senso di un "lavoro" che la metteva in contatto con delle giovani creature, decisamente meno fortunate di mio fratello e mie. non che non lo percepisse già allora, ovvio. ma col bacino di decantazione di due decenni e le consapevolezze dell'età più matura il tutto s'accende e si tinge di luci diverse. a tutti, ogni volta, ripete che lei e le sue colleghe hanno voluto un gran bene a loro. hanno cercato di dar loro quanto più affetto e amore possibile. è uno shock positivo perché credo abbia la conferma, trasparente e onesta intellettivamente, che sia stato fottutamente così. quasi a voler dar il suo contributo ad ovviare all'"ingiustizia" che obbligava quei bambini a vivere lì, e non dentro mura di affetto famigliari.
me lo ricordava di quanto fossimo fortunati. specie quando allora mi ci portava in quei luoghi, nei luoghi del suo lavoro. non so quanto lo capissi, a quei tempi. evidentemente la ritenevo una cosa scontata da bimbo e regezzì: che io stessi in una famiglia. e che per me non potesse che essere che così. di fatto però, quando ero lì, non mi ci trovato molto a mio agio. percepivo qualcosa di inspiegabile, che mi provocava sensazioni che avrei definito come di disturbo. non so quanto capissi che era il mio tentativo di metter la testa sotto la sabbia e non guardare quell'acclararsi di realtà di  bambini, più o meno coetanei, che di una famiglia avevano il surrogato.

mi è tornato prepotentemente in mente tutto questo oggi.

d'improvviso, al cancello di casa hometown, mentre tendevo la catena della motosega per il piccolo hard-gardening che mi attendeva, si è materializzato uno di quegli echi del passato.
arrivò a diciottomesi. se ne andò, adottato, ventiquattro mesi dopo. lui ha qualche ricordo netto, puntuale. molte altre cose gli sono state raccontate dai genitori adottivi. pezzi che spera possano servire ad innercar la risonanza dei ricordi di qualcuno che lavorava là. per cominciare a far luce sulle radici. quando arrivò non parlava, quasi non comunicava con l'esterno, mangiava a fatica, era lì, lì per finire in un gorgo di un mondo tutto suo, in cui avrebbe potuto non far entrar più nessuno.
oggi ha quasi quarant'anni, padre di due figli. quindici anni fa i genitori adottivi gli chiesero se avesse voluto conoscere la sua storia. lui si è rifiutato. poi, qualche settimana fa ha cambiato idea.
ed è tornato pure lui.
quasi per caso, nel nel B&B dove ha dormito, ha cominciato a raccontare pezzi di storia, e chiedere. la hometown non è grande, si sa chi ha lavorato in quell'istituto. e quindi si è arrivati tosti al cancello, cercavano mia madre, avevo in mano la chiave inglese per tendere la catena della motosega.
passato qualche minuto mi sono intromesso pur io e sono entrato in casa, guardavano foto, mia madre provava a scavar nella sua memoria, scartabellava con un po' di agitata emozione album fotografici su feisbuch. mi sono subito accorto stesse succedendo qualcosa ad alta densità emotiva.
dopo qualche minuto, per un attimo, l'ho guardato di sottecchi.
è stata una botta, prepotente, osservar lo sguardo che sapeva di profondissima malinconia. come se narrasse la fatica e la complicazione di provar a guardare in faccia alle sue origini: qualcuno che gli raccontasse di sua madre, della sua famiglia di sangue. e la paura che, nonostante la fatica, corresse il rischio di non trovar testimonianze.
è uno sguardo che mi ha segretamente commosso. ora che non metto più la testa sotto la sabbia. e che di controbalzo, e dopo aver perso migliaia di occasioni e l'intuizione dell'importanza di un padre quando era ancora vivo, mi ha fatto percepire il concetto di radici. cosa talmente imporante che il guccio ci ha messo un album per provar a dare contezza alle sue. quelle che per certi aspetti mi ostino a veder come lontane da me e di cui mi verrebbe da prender distanza. per poi però rendermi conto di come l'albero che ne è venuto fuori sia così instabile e [troppo] poco pregno del suo essere legnoso.
quell'uomo è tornato, con tutta la fatica che probabilmente gli è costato, per provar a togliere dall'oblio le sue. forse come esigenza inevitabile. forse come strutturazione del suo essere tronco, albero, rami, foglie.
due dettagli, infine mi hanno colpito.
la moglie. uno di quei personaggi che io scaricherei dopo quattro, cinque minuti. non per altro: una di quelle donne che sono presenza importante ed ingombrante, chioccie compulsive dei loro compagni prima che dei loro figli. io non sopporterei una compagnia del genere. probabilmente è quello di cui lui sentiva un qualche sublimato bisogno.
l'età. lui, come molti degli altri, tornano da adulti, ma da adulti da un po'. quando la giovinezza comincia ad essere qualcosa di cui si comincia a parlar al passato, per quanto prossimo. come se ci fosse bisogno di tempo, di strutturazione del tronco, di una qualche forma di realizzazione compiuta per tornare ad esplorarle e dissepperlirle quanto basta. sempre la storia delle radici, sublimata nei luoghi dell'infanzia e soprattutto nell'eco che ne riportano le persone che quell'infanzia l'hanno accompagnata.

ho poi fatto il piccolo hard-gardening con la testa che mi rimbombava di tutto questo.